Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Il vento che s’infila e sibila in quel budello urbanistico è il “vento del lamento”… Se si ascolta, quel vento, lentamente si trasforma nel cantico disperato di una principessa sofferente che si lasciò morire, nell’attesa di un improbabile ritorno del suo cavaliere dalla campagna di guerra. La principessa era rimasta lì, e dal loggiato del convento di Santo Spirito d’Ocre guardava la valle dell’Aterno, sola, e con quel lungo abito broccato sbattuto dal vento e dalle bufere di neve, aspettava… prima di entrare in una leggenda medievale cortese, cristallizzata nel suono, un sibilo, mai interrotto, che si può ascoltare ancora oggi, tra i sottoportici, le gallerie del borgo e infine trascinato, quel lamento, dalla tradizione popolare di un luogo – immagine, sì, un luogo –immagine, topos della mente: quinte e intonaci delle case trasformati in racconto; portali e vicoli resi magici da una delle tante fiabe di Fossa, l’abitato ne è partecipe, tanto che intorno a questa narrazione struggente sembra aver creato con le sue case un particolare palcoscenico, ubicato ai bordi di una fossa carsica, un anfiteatro naturale che sempre di più si apre, dai tornanti panoramici, fino in cima alla dolina del monte Circolo, che raggiugeremo più tardi. Ogni pietra, ogni cavità delle falesie carsiche si caricano delle geste leggendarie alla maniera di Tristano e Isotta nel romanzo bretone di Joseph Bédier, (scrittore e storico francese), di epiche imprese di eroi e santi, di amori e passioni, ma lo capiremo più tardi.

Il luogo evento: il martirio di San Massimo

“Che fosse portato a quel luogo, che si diceva il Circolo, e indi dall’alto fosse precipitato, il B. Massimo rese grazia a Dio. Nelle tue mani, o Signore, raccomando il mio spirito, compì il glorioso martirio per amore agli 19 di ottobre. I cristiani poi notando il luogo, andarono di notte a prendere il suo Corpo e lo sepelirono.” scrive nella ‘Dissertazione sopra gli atti di San Massimo Levita e martire’ Giuseppe Coppola, nel 1749, del luogo sacro, un terrazzamento naturale, tra i tanti delle pareti verticali che abbiamo raggiunto, segnato da un lapide: “Su questo altare cruento che ha per tempio l’immensità del cielo” è scritto, nel 17°centenario della morte che ne definisce il sito del martirio, “uno scoglio semicircolare” punto di riferimento emozionale per la comunità locale, nella bocca appunto di monte Circolo; un “percorso” che emerge dalla memoria del passato, da quegli elementi permanenti e distintivi, cristallizzati nel paesaggio naturale del martire Massimo fin giù nella profonda rupe, dove una croce segna il punto, indicato dalla tradizione orale, appena sopra il paese di Fossa, dove il corpo fu ritrovato ed “ivi incalzato dalle pietre lanciategli addosso”. E’ il 251, secondo alcune fonti. “Sotto l’Imperatore Decio (249 -51) – scrive padre Aniceto Chiappini nel 1932 – le relazioni fra Impero romano e cristianesimo entrarono in una nuova fase giuridica” e con la ricusazione del culto degli dei e gli onori divini all’imperatore, i cristiani vennero definiti atei, pericolosi e quindi vittime di una brutale persecuzione, e tra essi San Massimo, i cui particolari del martirio vengono narrati negli Atti. “Luogo orrido e ispido, oscuro e tetro come una prigione; esso fa paura all’alpinista più abile che volesse tentarne la scalata” continua Chiappini su monte Circolo.

Atti e documenti e leggende popolari intono al culto di San Massimo. Il 10 giugno dei mercanti in fiera nella città dell’Aquila.

Buccio di Ranallo e la fiera di San Massimo

Da quella iniziale del 19 ottobre, con una grande fiera, ricordata da Buccio di Ranallo nella seconda metà del XIV secolo : “La festa che fu facta, fo allo vescovato, et fo per santo Maximo beneticto et laudato, che venìa de ottobro, che era homo (l’uomo) affandato (affannato): chi cobelli (qualcosa) facevavi, era scomonicato”.

La diocesi aquilana e le date che mutano intorno alla festa di San Massimo

Con la costituzione della diocesi aquilana attraverso due Bolle papali della fine del 1256 e i primi del 1257, e della cattedrale intitolata ai santi Massimo e Giorgio (entrambi legati alla diocesi aquilana), la sede fu trasferita dentro la città sotto controversie, contraddittorie e dibattute interpretazioni tra fonti storiche, atti, documenti e leggende popolari che avvolgono San Massimo e la storia della sua Chiesa, insieme alle date che mutano: dal 19 ottobre (scomunica delle persone che lavoravano durante il suo giorno commemorativo), al 10 maggio (ricorrenza trasferita dal vescovo nel 1360) e infine al 10 giugno, data che ricorda un prodigioso accadimento operato da San Massimo in occasione della visita dell’imperatore Ottone, ma emanata invece con i diplomi dei Reali di Napoli dell’anno 1361 poiché alla “Magnifica sagra cittadina” di maggio, i mercanti del regno non erano intervenuti numerosi alla fiera.

Una stampa d’epoca – Biblioteca provinciale “S. Tommasi” – L’Aquila e l’ olio su tela presso il Munda – L’Aquila.

Una stampa, un’acquaforte (20×24), che fa da prologo visivo al manoscritto di Mariani, rappresenta San Massimo Levita “Il principale protettore aquilano”, recita la didascalia che focalizza i passaggi, il racconto delle “scene” montate della sua vita leggendaria: l’estasi del santo in abiti vescovili in primo piano, con ai piedi la palma del martirio, incoraggiato da due putti che sbucano dalla nuvole; due uomini che si sporgono dalla rupe e indicano il corpo del santo, nel baratro, dopo il martirio, e infine due angeli che si compiacciono di reggere una città, Aquila, (G.C. Bedeschini nella prima metà del XVII sec., olio su tela, rappresenta San Massimo che regge la città) mentre sullo sfondo giganteggia una quercia, alta, solida, tanto che esce dal campo visivo del riquadro: è una di quelle secolari, che ancora oggi si trovano nella conca aquilana, testimoni del transito di avvenimenti, patrimonio di storie e leggende, di stagioni e memorie portate avanti dalla pietà popolare che non ha mai smesso di identificarsi con i miti religiosi dell’antica diocesi aquilana.

La tortura di San Massimo

“Pigliavano un legno convenevolmente lungo e grosso – scrive Domenico di Sant’Eusanio in ‘L’Abruzzo Aquilano Santo, 1849 -1850’ – conficcato sopra quattro legni come quattro gambe, due da capo e due da piede, con due girelle attaccate dai capi per una banda, alle quali si avvolgevano le funi, e alle funi da una parte si legavano i piedi di colui che doveva tormentarsi il quale sopra il legno con le gambe aperte si metteva a cavallo, dall’altra parte di poi all’altra fune si legavano le mani di dietro la schiena fra se legate: il che fatto stiravano i carnefici le funi. E come lo avevano essi per le braccia e per li piedi a loro modo stirato, lo lasciavano così quanto fosse à giudici piaciuto: ovvero allentandogli di ordine loro le funi, lo facevano cader sotto l’aculeo pendente in aria da quelle medesime funi: ed il giudice, mentre in sì dolorosa maniera lo vedeva, soleva esaminarlo”. L’aculeo, strumento di tortura, una sorta di cavalletto sul quale la vittima veniva allungata, a forza, fino a ‘stirargli’ il corpo, a spezzarne le giunture, narra così l’agiografia (narrazione di motivi leggendari) apocrifa (documenti non autentici) del martirio di San Massimo, vissuto e imprigionato durante la persecuzione di Decio, sottoposto a torture per l’appartenenza ad una famiglia cristiana, fino alla morte giunta il 19 ottobre 251 dalla rupe di monte Circolo (sovrasta l’attuale Fossa), e venerato poi dagli abitanti della sede episcopale di Forcona.

Le immagini.

Tristano e Isotta, storia d’amore del Medioevo. Ispirata a leggende celtiche, cavalleria cortese, feudalesimo e amore eroico.

Coppia a cavallo, dettaglio da un pannello d’avorio su Tristano e Isotta ( Parigi, 1340 -1350)
“Mia dolce rosa”, anno 1903, John William Waterhouse, preraffaellita ( 1849 -1917 )

G.C. Bedeschini, Museo Munda – L’Aquila – prima metà del XVII sec., olio su tela, rappresenta San Massimo che regge la città e mostra la sua cattedrale. Alla scoperta dei particolari e dei dettagli nella pittura di Bedeschini.

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