Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

” D’un Miserere la città dell’Aquila”. Tra le tante definizioni, Antonio Ludovico Antinori ( 1704 – 1778, arcivescovo, storico, epigrafista) sceglie appunto questa, una citazione sopra le altre, un salmo inquietante della misericordia dell’Ufficio funebre ma anche il più eloquente che segna i destini e scandisce le pene, per decifrare la città dolente, i vessilli dei nostri antenati e provare a rappresentare il dolore pubblico, luttuoso del terremoto del 2 febbraio 1703, giorno della Candelora che distrusse gran parte della città e il suo contado. Scriverà Antinori molti anni dopo, sul sisma, raccogliendo documenti anche sotto forma di testimonianze, avvalendosi delle memorie collettive e delle persone che potessero raccontare, ricordare. Una sorta di ricerca sul campo dentro una tragedia collettiva. Parla, Antinori, del popolo minore, dei palazzi dell’aristocrazia, degli edifici di culto e delle reliquie dei santi protettori della città – territorio, Aquila medioevale e rinascimentale, come noi non l’avremmo mai più potuta vedere. ” Fra gli effetti naturali del sisma – annota l’Antinori – si contavano i vapori puzzolenti esalati dalla terra. Le acque cresciute nei pozzi, gli acquedotti sotterranei rotti in più parti. Seguì la terra ad ondeggiare in modo quasi in bollimento, per ventidue ore continue”. Ma un’altra storia è possibile raccontare, partendo sempre dal terremoto del 1703. Un’altra storia, proviamo ad immaginare, che giunge dritto fino a noi. Questa. Le travi cadute delle case, divelte, arrotolate, ma accese tanto quanto basta, dal fuoco dei camini sepolti, formano sparsi focolai che rischiarano a tratti le macerie di pietre, in cumuli, sulle vie antiche e ai fianchi delle pareti, delle case aperte, squarciate con dentro gli arredi, alcuni intatti, sui frammenti dei solai. Un paesaggio incomprensibile si presenta. Sgretolato, con una polvere sottile di calce, quasi soffocante, appena bianca, una coltre avvolgente sui lunghi silenzi interrotti dalle urla, dai richiami, dai nomi che si rincorrono. E su questo ” campo” di desolazione avvolto dall’oscurità, le prime torce portate in mano, cadono, tra i detriti vengono rialzate, vagano, barlumi di luce nell’oscurità si muovono, cercano i corpi sepolti di una città, Aquila, che adesso abita lì sotto, e illuminano i corpi piegati e silenziosi seduti a terra avvolti dai panni con la testa china. Le torce poi sui volti rigati dalle lacrime, dei feriti, sanguinanti, dei sopravvissuti nella notte che è appena iniziata, interminabile si annuncia, come fotogrammi in bianco e nero, sequenze proviamo a pensare, e ancora di morte e rovine, di un nastro che scorre e registra. Senza fine. Il “campo” delle inquadrature cambia scenario, ma le riprese, le immagini, che si sovrappongono, sono adesso attraversate ” dagli spettri e squadre di nero in atto di dare battaglia” così è riportato dalla tradizione popolare, oppure dal fatalismo : i Cavalieri dell’Apocalisse affacciati dalle colline sulla città, scesero con i loro stalloni neri dagli occhi di brace che soffiano fiamme e fuoco dalle narici e lanciano lamenti lugubri e infernali, abbattendo le porte della città sono entrati, per spartirsi il loro dividendo. Ma la torcia va avanti, non potrà mai illuminarla, forse gli passerà vicino, ma da qualche parte lì sotto, tra le macerie, c’è una molecola del Dna con la sua memoria, invincibile, l’impronta de : ” In nome della città dell’Aquila”. Risale la molecola, matrice e segmento si rivela, si apre, manifesta tutta la sua forza. Un minuscolo frammento di particella che ha imparato a sopravvivere, da sempre, nella città, dalla sua fondazione e dagli uomini che l’anno fatta propria da tempo immemorabile. Viaggia, la molecola, per vedere le chiese ” Sbattute come navigli da onde burrascose”, il campanile del Duomo si piega e l’arco basilicale della chiesa di San Marco fu visto tre volte aprirsi e tre volte richiudersi, ” Che sono quasi a terra le chiese di San Bernardino, San Filippo, la Cattedrale, Sant’ Agostino, con resto di tutte le chiese e monasteri di detta città”, insieme ai palazzi “ò raso ò cadenti, la Fortezza verso tramontana è caduta, il resto molto intronato, a segno tale ch’é stata abbandonata dal castellano e dalla guarnigione”. Per proseguire, ancora la molecola, fuori dalle mura su ” li viventi restati a tanto sterminio, tutti in campagna aperta sotto capanne, e tavole, ignudi, miserabili, e mendichi, con calamità e miserie inesplicabili”, per guardare infine ” preti che tengono il grano, non vogliono darlo ai prezzi stabiliti e il Vescovo, trovandosi già venduto quello della mensa, non fa niente dal canto suo; anzi ha permesso di farlo salvare ne i Conventi e luoghi pii secolari e benestanti, e di cuoprirlo sotto il manto dè preti…” così è scritto nella relazione del procuratore fiscale della Regia Udienza per il riconoscimento dei luoghi e terre danneggiati dal sisma del 1703. La molecola, la chiameremo della solidarietà e partecipazione, ” tracciante”, ma anche informazione genetica della “spiritualità e conoscenza civile”, fu pronta a costruire il futuro, guardare avanti. Quel sigillo di appartenenza ” In nome della città dell’Aquila”, comunque la pensiamo, s’impose nella volontà di ricominciare di nuovo, ebbe la meglio sulle lacerazioni del tessuto sociale, e sulla scia di lutti e le devastazione degli intimi spazi urbani, più di quella laconica espressione geografica, divenne un luogo certo, dentro uno straordinario resoconto antropologico dell’identità, una prova di forza per Aquila, una prova di coraggio inusuale per ripartire, così come ci viene tramandato dalle carte d’archivio, fino ad arrivare a noi, la molecola. Infine il nostro tempo osservato, con una identità che continua a sbiadire, scaraventato lontano e sempre con meno autorevolezza da negoziare, spesso grondante di retorica, indecifrabile per le attese incomprensibili, i diritti calpestati della città e delle sue persone smarrite e silenti; per le distanze, lasciate, nelle decisioni rimandate, che aumentano e distaccano sempre di più la partecipazione e la condivisione. Adesso sì che la molecola è ferma e nessuno si senta escluso.

Le fotografie. L’Aquila, il centro storico.

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