Quel “monumento” al lavoro dimenticato nella frontiera del Gran Sasso. Intorno a Rocca Calascio.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

E’ l’ultimo avamposto del lavoro umano, conosciuto. Oltre, il paesaggio diffuso, che ingoia e metabolizza le terre di nessuno: le trattiene le terre e ne fa quel che crede, spietato com’è questo paesaggio che non fa sconti, oltre questo luogo – barriera, una sorta di balconata, la chiameremo “sigillo”, un avamposto dove siamo “piantati”, che guarda, fino a perdita d’occhio le montagne di macerine (spietramento dei terreni) e mandroni (recinti in pietra per gli animali) e basta. Ma da qui, forse, potremmo dire che, appunto, questo è stato l’ultimo presidio, più in là, non è possibile antropizzarle quelle distese di terre d’altura, fino alla muraglia dolomitica della dorsale montuosa che scorgiamo, frontale, dell’Appennino Centrale con i  monti Prena, Casanova ,Brancastello, e più a nord le cuspidi calcaree di Corno Grande. Ostili, certo, a ben guardare, terre dure da coltivare e attraversare con il pascolo, irriverenti, sì, per usare un eufemismo, ma tanto di più… Lo vedremo. La frontiera del lavoro quindi, lo chiameremo così questo luogo, sito anche temporale, poiché, accadrà, che questa artica superfice terrestre chiuda i suoi battenti nell’imminente inverno, con una cascata di neve, tanto da cambiare sostanzialmente la morbidezza della luce dei  pascoli, delle gobbe erbose, le doline e le conche carsiche che modellano nella loro essenza questo primitivo teatro ambientale, riconsegnato per circa otto mesi al suo standby, da sempre, glaciale, forse da quando gli Appennini si alzarono… Schiacciato com’è, questo “sigillo” si presenta sotto i nostri piedi, tra i blasonati e colti Beni culturali del castello militare di Rocca Calascio e il suo borgo diruto e, vicino, la “metafisica” chiesa a pianta ottagonale di Santa Maria della Pietà. Apparentemente insignificante, mai considerato, defilato, il “sigillo” marca la frontiera del mondo conosciuto, una sorta di linea di confine della cultura materiale tra la comunità locale un tempo, quando questa viveva tra il paese di Rocca Calascio e le enormi distese paesaggistiche coltivate, togliendo le pietre, alle montagne… Altro non è questo “sigillo” che un’aia pavimentata (è una delle quattro aree, contigue tra loro), una piattaforma con massi di pietra, il più possibili piatte, incerte, trovate nelle montagne e lì infisse nel terreno rialzato e armato nel suo perimetro da enormi blocchi calcarei che lo sostengono (alcuni squadrati, prelevati dal perimetro murario difensivo del castello). Fungeva da spazio agricolo per la battitura e l’essiccazione dei cereali: questo il “sigillo”, questo il luogo senza datazione e senza tempo, una sorta di monumento alla fatica in un habitat estremo e all’isolamento dell’Abruzzo interno. I coloni raccoglievano falciando il frumento dalla montagna, lo trasportavano con le caie in legno a dorso di asino, scaricato poi sull’aia dove infine si trebbiava, utilizzando gli animali che, girando sui covoni in circolo, calpestavano le spighe con gli zoccoli per separate il grano dalla pula. Il grano maturava solo a fine estate, ma bisognava fare presto, con i turni delle numerose famiglie per la trebbiatura fino a notte, “da stella a stella”, in quello spazio comune. Presto, in una sfida continua tra l’uomo e l’ambiente, per fronteggiare il ricavo della stagione agraria solo per autoconsumo, che volgeva al termine, e il tempo, questo tempo ad Occidente del Gran Sasso d’Italia spietato e indefinito, inesorabile, impietoso: l’autorità suprema che avrebbe sancito infine i destini della piccola società di Rocca Calascio.

 

Le immagini.

L’aia pavimentata in pietra sorge a fianco della chiesa di Santa Maria della Pietà insieme ad altre tre piattaforme,il paesaggio circostante di macerine e recinti in pietra, il borgo di Rocca Calascio, il castello militare difensivo, la chiesa di Santa Maria della Pietà, immagini d’epoca – anno 1929 – della trebbiatura a Castel del Monte.