Alla ricerca dello spirito della montagna. Gran Sasso d’Italia. Emilio Ciammetti, le montagne che possono raccontarlo.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Con Emilio è li che dovevamo stare… Ma adesso, io, potrei essere solo una minaccia. E allora mi vede e flette prima la testa, poi secco il nitrito, quasi rimbalza quel suono tra le coste della vallata: il puledro è richiamato, la madre lo aspetta, si affiancano, galoppano insieme, scompaiono oltre la collina che sovrasta la sinuosa valle del Vasto. A sera, con le ultime luci che si allungano sul pascolo, la famiglia dei cavalli entrerà, ospite, in una “camera con vista”, ben protetti per ripararsi dalle scorrerie dei lupi, l’alloggio è a loro disposizione… Lo capiremo. Tra Monte San Franco ( 2132 m. ) e Monte Stabiata  ( 1630 m), la valle del Cupo con un fiume d’acqua sciolta dalla neve, poi il fosso della Pappalorda che precipita nella valle del Vasto, ma soprattutto S. Antonino ( 1465 m.) il sito per eccellenza, luogo franco, avamposto religioso, cella devozionale, stazione di culto officiante nell’area pedemontana della dorsale occidentale settentrionale del Gran Sasso d’Italia ( barriera carsica alzata di Monte Jenca, Pizzo Camarda, le Malecoste), sito degli ex voto e della grazia ricevuta un tempo dagli antenati, loro, nel raccoglimento  e nell’invocazione  in una società arcaica senza diritti, del quasi niente, schiavi pastori – coloni. Oggi S. Antonino è un avanzo di mura, destrutturato della sua memoria non solo di pietra e malta, laconicamente mortificato a un rudere: sì è quella la “camera con vista” per i cavalli…

Nel 1974 è seduto su una pietra davanti l’ingresso di S. Antonino Giuseppe Capannolo (classe 1922), vive ad Arischia, pastore da sempre, personaggio di un romanzo senza tempo. In una fotografia, appunto, di quell’anno, lui parla con Alessandro Clementi, lo storico aquilano. L’edificio di S. Antonino era allora intatto, con a fianco il rifugio contiguo – oggi crollato – alla piccola chiesa per i pastori transumanti e gli stanziali coloni delle terre alte da coltivare. All’interno della cella religiosa c’era la cappella devozionale, la volta a botte con pietre a secco rivestite da intonaco, sulla destra un altare in mattoni, il pavimento con l’identico materiale, ricorda Giuseppe, e un affresco. Nella lunetta della facciata un altro affresco di S. Antonino, vezzeggiativo popolare di Arischia, familiare e intimo attribuito a San Antonio Abate (ma tutto è andato perduto) protettore degli animali: una lastra in pietra con iscrizione certifica la datazione nel 1732 del piccolo complesso aggregativo al luogo di culto, con lo stemma di Arischia. La lastra, trafugata e asportata dalla facciata ha contribuito, insieme al disinteresse per questo bene culturale paesaggistico, ai crolli degli edifici (cappella e ricovero). L’epigrafe era dunque un’invocazione alla carità del santo da parte della proprietà di tal Pesce Ascenso, un’invocazione, forse in presenza di miracoli di cui è stato protagonista, prodigiosi eventi taumaturgici del Santo venuto in soccorso, che lo hanno spinto in questo rilevante ex voto, appunto, con la costruzione della cappella, per grazia ricevuta. Nel ricovero dormivano fino a sette pastori sulle rapazzole rialzate dal suolo, frasche e paglia dentro un sacco per coprirsi. Stazionavano con il gregge il tempo necessario, poi partivano per la transumanza e liberavano il ricovero per altri pastori. Dall’agro Romano alla transumanza nelle Puglie, S. Antonino è stato uno snodo antropologico, un passante sociale di rilevante entità. Lì la sosta, lì si acclimatavano le mandrie per quindici giorni per poi farle salire ai Castrati, Solagne, al Chiarino: provenivano dalla campagna Romana. Oppure, se diretti lungo il tratturo verso la Campagna pugliese, in quel punto geografico oggi reso insignificante, piantavano i pali con le reti in corda per gli armenti o utilizzavano i mandroni (recinti) in pietra a secco, i pastori entravano nel rifugio, recavano doni nella cella religiosa del santo protettore degli animali, offrivano una “servetta” di pane, una pizza di formaggio, la ricotta, qualche salsiccia, anche gli agnelli, racconta Giuseppe, e c’era una cassettina per le offerte per qualche centesimo. Il sacerdote veniva da Arischia per la messa e i frati dal convento di San Nicola. Si racconta di miracoli, cavalli salvati dalle malattie, pellegrinaggi continui dal versante teramano per onorare il Santo taumaturgo protettore degli animali e dei campi, tanto che le offerte venivano anche dai contadini. Le tende in tela grezza, invece, montate dai pellegrini intorno all’edificio per l’incubazione, pratica magico- religiosa che consiste nel dormire in un luogo sacro per poi avere in sogno rivelazioni sul futuro.

Ma poi è diffuso il quadrante topografico che storicizza l’area che ci appartiene a nostra insaputa: Genca, Vasto, Vio, Precoio, Jalli Remposti solo per citarne alcuni, toponimi quasi impronunciabili ma che designano centri di comunità scomparsi, insediamenti umani ( e ancora molti altri ) che nell’area di S. Antonino hanno mosso le prime pedine, nell’Alto medioevo, le prime tessere di un mosaico con un solo obiettivo: la città nova di Aquila, quando questa si presentava in quel tempo una gobba erbosa che profumava di timo, finocchio selvatico, croco e bucaneve in questo periodo dell’anno. Da qui, viceversa, da queste sub – aree dell’Appennino interno la “visione” di un progetto prende forma materiale. Non più il frazionamento di gruppi insediativi, non più vivere sottoposti a feudi e famelici ordini monastici, ma una lunga marcia inarrestabile verso la città – territorio libera, degli uomini, ma cintata per proteggerli. La decadenza quindi dei centri altomedievali verso il luogo – demanio, Aquila, ma ci vorrà ancora del tempo.   

Infine, alle spalle della cella religiosa di Sant’Antonino, una lunga fila di impronte risale, tira dritta e poi flette leggermente per valicare il colle: i lupi, alcuni esemplari, che hanno poggiato le impronte, direi meticolosamente, questo lo sappiamo, su quelle di chi precede. In fila indiana, ci piace pensare, in marcia sul pendio di monte Stabiata e infine acquattati sul crinale che guarda Pettino, periferia dell’Aquila non solo, ma anche di Emilio Ciammetti dove è vissuto mai da protagonista, defilato, smarcato dai primati che molti rincorrevano intorno a lui. Oltre le tendenze ma presente, lo sanno bene queste montagne, le uniche, che possono ancora raccontarlo insieme alla sua “periferia”. I lupi alzeranno la testa con le orecchie dritte e con gli occhi scruteranno la vallata, ne sono sicuro, gli farà piacere e sorriderà Emilio Ciammetti.

Le immagini relative all’area insediativa della chiesa di S. Antonino e al paesaggio circostante.

Un particolare ringraziamento ad Abramo Colageo, storico locale di Arischia.