I borghi invisibili della Conca aquilana. Le comunità locali costruite dal sottosuolo.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Argia, la città invisibile: “Di notte, accostando l’orecchio al suolo, alle volte si sente una porta che sbatte…”, forse è il vento che dalla valle investe in pieno San Benedetto in Perillis, borgo scavato in una miriade di cunicoli nelle viscere della collina su cui sorge: la sua memoria; oppure Santo Stefano di Sessanio: sottopassi, grotte e rifugi lo caratterizzano; cavità, budelli angusti ricavati nel calcare del borgo, colto, ” mediceo”, di superficie: il suo Dna; e lì sotto invece la società d’inverno che si riuniva, scendeva per condividere un’altra storia tracciante, di cui si rinvengono i segni ; infine San Demetrio né Vestini e le sue Ville, dai caratteri culturali architettonici che si sono sovrapposti modellandosi nei secoli, in una identificazione con un ambiente naturale integro, dalla sedimentata, forte, tradizione autoctona, crocevia della Media valle dell’Aterno. Nel sottosuolo, a diverse quote, il forno, e ancora più giù la cantina, i pozzi per pigiare l’uva e per la raccolta delle acque, le gallerie di raccordo, i gradini ritagliati dalla roccia, volte armate da archi e ancora camminamenti: la sua identità.

 

Argia, dunque è svelata, diversa dalle altre città, che invece d’aria ha terra…” eccola in un libro particolare, anomalo, intrigante: “Le città invisibili” titolo di un capolavoro, romanzo di stati d’animo del grande autore Italo Calvino (Einaudi, 1972) che inizia un “viaggiare” onirico, dentro il desiderio di far apparire i luoghi, i borghi e tutto quello che all’interno vive in una sorta di racconto fantastico, allegorico, forse per richiamare il senso di appartenenza delle genti. Attraverso tante città che non si trovano, non si possono rintracciare in nessuna carta geografica, avvolte dal mistero e chiamate con il nome di donna, il romanzo di Calvino si muove in una dimensione metafisica e finisce per travolgere il lettore, disorientato da tanto straordinario impeto descrittivo.

 

Argia, dunque, metafora, città dei segni e delle passioni, universale poiché non geografica, dagli spazi capovolti, di gente diversa; di sensazioni, contaminazioni, tanto apparentemente vicina scompare all’orizzonte per poi rapidamente avvicinarsi, fino a materializzarsi per un attimo nei piccoli borghi, i nostri, appenninici della Conca aquilana: tessere di un mosaico, stravaganti nella morfologia, nelle invenzioni urbanistiche e incredibili nelle motivazioni che li hanno determinati; siti narranti mille storie stratificate, da raccontare, senza tempo apparentemente, senza imporsi nell’era globale ma sono lì, per richiamare e combattere sfiducia e declino, localismi dannosi e municipalismi settari. I comuni quindi, i nostri, narcotizzati per decenni dalle sagre devastanti, un mosaico di mille tessere che diventano una sola risorsa, non negoziabile, che solo oggi, a fatica, provano a riposizionare i valori secolari di una terra ancora tutta da raccontare. I centri storici minori, L’Italia minore, i luoghi della cultura, dei saperi, e degli ultimi destini, sempre che non vengano decisi poi dalla schiacciante, emergente globalizzazione di una economia che tutto vuole unificare, senza identità.

 

Le immagini.

San Benedetto in Perillis, Acciano, Navelli, Fontecchio, Santa Maria del Ponte