Testo e fotografia Vincenzo Battista.

E se il demonio, negli affreschi della seconda metà del Duecento, nell’Oratorio di San Pellegrino di Bominaco, apre la testa ad un uomo per prelevare l’anima (rappresentata da un piccolo uomo in miniatura che esce rapito dal cranio poiché vive nel suo corpo), lo stesso demonio poi si trasforma in quella pittura, assume le sembianze di un serpente, subdolo e crudele, dispiega le sue legioni al seguito, cerca altrove, trova infine, e si avvolge, intorno alla croce di Celestino V: il simbolo della congregazione dell’ordine storico dei celestini. Così lo stemma in pietra, in legno, scolpito, nei libri a stampa dell’epoca diffuso persino nei termini di confine seicenteschi infissi nel suolo del paesaggio pedemontano (la proprietà appunto fondiaria dell’ordine nella Conca peligna). Presente e costante, dalla clausura ai corridoi, dal portone alla sacrestia e oratorio del complesso monastico, lo stemma è una sorta di logo identificativo, tangibile nella Badia di Santa Maria del Morrone (casa madre dell’ordine dei celestini). I greci, tra l’altro, utilizzarono il simbolo legandolo al dio Hermes. La serpe, quindi, ingannevole, è rappresentata plasticamente, si avvolge e circonda con le sue spire la croce, è pronta a dare battaglia, dispiega le sue forze nella perenne lotta tra il bene e il male. Non ha paura, accetta la sfida, sembra dirci. Sovrano, istigato dall’odio che non ha tempo, il demonio mutante in serpe, famelico di anime da ingoiare, cerca e trova una sua dimora, altra, per covare il suo rancore e straziare, la cerca, e infine la trova, tra le forre e gli strapiombi del Morrone, ecco il suo domicilio: “La valle dell’Inferno”, così chiamata dalla tradizione popolare che in alcune notti persino rumoreggia, inquieta, una contrada montana che fiancheggia e scende a precipizio a fianco dell’eremo di Celestino V sul Morrone. La lotta è rimandata, il demonio non è sconfitto, si è dato convegno secondo la narrativa popolare delle genti, lì risiede tra le cavità e un habitat impervio e intricato dalla vegetazione, mostruoso e misterioso, aspetta. Lì deve esser battuto il demone. Ma bisogna andare, cercarlo, fronteggiarlo. Lo vedremo. Il terrazzo dell’eremo di Celestino V, qui si compie il rito davanti alla “Valle dell’Inferno”, ma dopo aver visitato la grotta e la cella con il crocifisso dove visse l’eremita Pietro da Morrone. Nel pellegrinaggio che molti compiono fino all’ultima tappa, il terrazzo meta finale, è una piattaforma simbolica per esorcizzare il male, allontanare le paure e le angosce: si raccolgono le pietre e si lanciano: “Più lontano si lancia la pietra, più lontano si scaccia il diavolo…” dicono, e raccontano le storie di ex voto esposti nell’eremo, episodi e accadimenti prodigiosi, miracoli, le persone infine che sono lì sul terrazzo. Il diavolo è la tentazione nella forra sottostante. Il luogo delle profezie e, per tanti, il volersi misurare con i propri bisogni dettati appunto da questo rito. Tanto che i custodi dell’eremo per evitare che le persone tolgano le pietre dalla roccia del terrazzo, riempiono enormi vasche e tini di pietre di uno sconosciuto culto che vive intorno alla memoria di Pietro da Morrone, eremita, a contatto con una natura a volte ostile e matrigna, ma che doveva convivere con la sua spiritualità (lo abbiamo visto nelle pitture di Carl Borromäus Andreas Ruthart (Danzica, 1630 – L’Aquila, 1703). Ecco, la spiritualità e la profezia che si avvera, il cerchio si chiude nella Basilica di Collemaggio, il tempo secolare e inamovibile, in apparenza, si muove, procede, diventa un circolo come vedremo di pobre Papa (Papa povero) così chiamato nel Sudamerica, Francesco, – che torna sembra dal passato… – e aprirà la Porta Santa dopo la Perdonanza di Celestino V (nel 1294 con l’emanazione della Bolla pontificia). La soglia è questa, da traversare quei pochi gradini, anch’essi diaframma tra il bene e il male, perimetro immateriale tra la solitudine universale dell’uomo e la salvezza che non sa, ma gli appartiene…