Celestino V e la sfida dei simboli. Dentro la mostra dei settecento anni di Dante Alighieri.

Testo e fotografia – Copyright ( © ) -Vincenzo Battista.

Si fronteggiano, forse si sfidano, lo vedremo sì, ma solo attraverso i loro simboli e quelle forme liturgiche che gli sono appartenute e oggi ricapitolate nei Beni culturali, riassunte, se ce ne fosse bisogno, ma lo sottolineiamo, per dare valore alle persone: Celestino V e Bonifacio VIII sono loro che si affrontano, si sfidano e si mostrano. Da una parte, quindi, la chiesa spirituale dell’ eremita fra Pietro da Morrone divenuto poi papa, e dall’altra la chiesa carnale, ma molto di più – e lo vedremo – di Bonifacio VIII in questa sala espositiva, inedita, dedicata a loro, che si raggiunge dopo un imponente percorso espositivo da compiere che ha messo in mostra il vertice, il punto più elevato delle opere d’arte e non solo, come non si potrà più vedere nei prossimi decenni così riunite : “Dante, la visione dell’Arte”, questo il titolo, 300 capolavori provenienti da tutto il mondo (manoscritti compresi) e poi installazioni, proiezioni nelle nicchie della grande chiesa, voci narranti, musiche, effetti mediatici di grande suggestione, a Forlì nel museo convento di San Domenico. Ma torniamo ai due personaggi in quella sala. Papa Bonifacio VIII (Anagni, 1230 circa – Roma, 11 ottobre 1303), il maestoso piviale esposto e protetto in una teca, esclusivo paramento liturgico del pontefice che avvolgeva tutto il corpo è suo, fu definito il corruttore di coscienze, papa temporale spietato, detestato da Dante Alighieri. Controverso, Bonifacio VIII, tanto da spingere il suo predecessore, appunto Celestino V, alle dimissioni dal soglio pontifico (secondo alcune fonti di recenti studi) e a controllarne da papa l’ultimo periodo di vita in segregazione. E  quel manto che lo ricopriva – appunto il piviale – metabolizza una sorta di programma temporale di Bonifacio VIII, il manifesto del suo potere applicativo della Chiesa di Roma su ogni altro potere politico: ricamato in opus cyprense nella seconda metà del XIII, presenta dei clipei ( scudo metallico dei soldati romani ) e all’interno di essi l’aquila a due teste, il grifone e i pappagalli che si affrontano: il sovrano ideale, secondo Bonifacio VIII, nella continuità, potere ed eloquenza quei simboli sono l’inasprimento della crudeltà, resa, visiva, la lotta senza mediazioni. Lo indossò Bonifacio VIII davanti a Celestino V ramingo, anziano e sfiancato nell’esilio – prigione a cui lo aveva costretto? Nella stessa sala, adesso,Celestino V  (Isernia o Sant’Angelo Limosano, fra il 1209 e il 1215Fumone, 19 maggio 1296), con il suo dittico reliquiario, terzo decennio del XIV secolo in vetro dipinto, dorato, sgraffiato, legno dorato, carta, lacche, tessuto e soprattutto le reliquie, le sue, conservate a Fumone, ultimo domicilio forzato prima della morte. L’autore, fra Pietro Teutonico, attivo fra il 1287  e il 1331, realizza nel reliquiario uno scrigno di una preziosità unica di altissimo artigianato artistico delle arti applicate, una sorta di software che si apre e chiude – alias computer portatile – con dentro tutto : codici, parole, simboli, immagini, proiezioni profetiche per quel tempo (veniva esposto e mostrato alle persone per ricordare la santità di Celestino V) e soprattutto sono i frammenti ossei e la carne, l’eternità, la “rappresentazione dell’invisibile”  di un uomo divenuto papa, nato povero, vissuto solo e morto povero nel suo spirito lieve e di non appartenenza… lontano dalla sua Chiesa che non l’avrebbe mai più difeso.  La Perdonanza, i fasti, l’incoronazione nella città di Aquila sono lontani. Celestino V è lì, dunque, profetico, aleggia nella mostra. Su una parete, infine, della sala, il monumentale ritratto di Celestino V in trono, in forma di losanga medioevale attorniato dai monaci eremiti dall’espressione positiva, sembra un Cristo Pantocratore, questo l’affresco staccato e ricomposto (1371 -1375, autore Niccolò di Tommaso, Santuario di Santa Maria di Casaluce). Il papa regnante, adesso, in quella pittura, benedicente, mostra il libro dell’infallibilità delle Sacre Scritture, e poi la tiara e dietro l’aureola di santità ”in vita” dei suoi numerosi miracoli attribuiti, il mantello di porpora, guanti bianchi da cui traspare, nella mano destra che si appoggia sul libro, un foro dipinto sul guanto: sembra far trapelare le stimmate (interfacciate con l’aureola) del suo anacoretismo avvolto da santità nelle spelonche del Morrone e della Majella. Il confronto, ora, tra Bonifacio VIII e Celestino V è decisivo. Il suo volto nell’affresco, i suoi occhi con le rughe radiali di un naturalismo alla Giotto, toni chiari, pastellati, stesura liscia del colore dell’affresco con le terre naturali impastate, campiture piatte e il trono romanico con la ruota traforata a raggiera – il rosone -, colonne a tortiglione, cuspidi, figure ornamentali, volute classiche con forme vegetali e sui piedistalli dipinti i Santi e la Vergine che  contornano la sua figura attenta, concentrata, austera che non cede a emozioni. Ma ora il suo segno distintivo, le sue radici culturali ci portano a una sorprendente interpretazione pittorica voluta dal pittore. Sopra la cappa rubea indossata dal pontefice Celestino V in occasione della sua elezione al soglio pontificio, sopra, il cappuccio di panno grezzo dell’eremita che riveste la stessa cappa,  “segno” straordinario di umiltà e povertà in tutta quella opulenza visuale come abbiamo visto dell’affresco condotto con molta perizia: ma la sua storia in fondo è incancellabile, quel cappuccio delle peregrinazioni e della solitudine, quel cappuccio del suo tempo non passato invano da cui proviene, custodito nella memoria, la sua montagna nella Via degli Abruzzi, quella, sì, elettiva… la “sfida” è conclusa.