Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Sei una serpe, strisci; sei un essere subdolo, viscido e scivoloso. C’è un peggiore insulto di questo? Vediamo. 1600 anni fa la Dea dei Serpenti (statuetta ceramica smaltata fittile palazzo di Cnosso), mostra due serpenti che tiene ben stretti tra le mani: li mostra, sembra dire non abbiate paura, il grande male è narcotizzato. Viceversa, in controcampo, nel più emblematico dipinto della “Madonna con Gesù Bambino e sant’Anna”, Maria calpesta il serpente, o meglio Gesù la aiuta con il suo piccolo piede, nella pittura di Caravaggio che racchiude il messaggio per lo stesso serpente: Gesù fanciullo con il pollice e l’indice forma un cerchio, simbolo di perfezione (il bene). Il serpente non può entrarvi. Quel perimetro definito sarà così per sempre. E se parliamo di categorie, il serpente, da queste parti, in queste contrade, è “La serpa”, declinata al femminile: donna, così la vuole la letteratura popolare, un po’ come la strega –  Jana, la gatta nera, la magara, e fatture, formule magiche, “ brevi” da indossare a contatto della pelle, olio che si scioglie, la rugiada e le “presenze”, poi ancora altro nelle pratiche esorcistiche di un’antica religione per liberare il male – contagio che vedeva la donna natura magica, punto di contatto, e suo malgrado, protagonista, di pratiche arcaiche, per sciogliere gli incantesimi e gli spettri di un mondo – altro, afferrarlo con riti secretati, nel latifondo agricolo imperscrutabile, dei borghi nelle conche aquilane e non solo, per infine pacificarlo e trascenderlo, acquietarlo quel mondo visionario per intenderci che giurano, si aggirava tra i vicoli dei paesi, ma sarebbe comunque ricomparso nel tempo. Come la serpe, che riappare, destino suo diremmo… calendariale, annuale, si affaccia, paradigmatico poiché le impongono di dimostrare, di essere interlocutoria, di sciogliere le riserve dal suo habitat etologico – comportamentale. Quello che l’attende sono, forse, 200.000 scatti fotografici (attore protagonista), ma anche di più tra quelle 30.000 persone, anch’esse stimate. Non bisogna avere fretta. Il perimetro spaziale della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Cocullo è ancora il luogo franco come nel cerchio di Gesù, in quell’ufficio religioso della messa per la commemorazione di San Domenico Abate, è quindi protetto. La liturgia si compie nelle regole della celebrazione della messa. Ma, quando la statua attraversa la navata unica del tempio religioso, si avvicina con i portatori al portale dell’uscio della chiesa, sta per uscire, si affaccia nella penombra prima e nella luce accecante della soglia e fuori,” l’arena”, è pronta a “cibarsi” degli “effetti”, assiepata, che aspetta lì da ore per sublimarsi da quello spettacolo che mette insieme l’origine della terra, il male perverso e crudele, e il suo rimedio reso innocuo. La statua di San Domenico è scesa a terra dai portatori, si avvicinano i “serpari”, quasi manca l’aria, tutti si assiepano, ha inizio la “vestizione” laica del santo con decine di serpi che iniziano a strisciare e scorrergli intorno ma vengono fermate, sì, e si arrestano è restano immobili (non lo sapremo mai, ma forse sono attratte dal tepore del legno smaltato della statua). Ha inizio la sfilata per le vie del borgo di Cocullo, le serpi scendono alle spalle della statua come un secondo mantello. Il circo mediatico è adesso alla sua massima esposizione, metafora della risonanza di un evento, che si trasforma, appunto, in una arena, un’attrazione circense dove è possibile trovare di tutto, ma non intacca certo le radici cristiane, stipate, private, e silenziose, dentro le case della piccola comunità locale, in quella plaga montuosa dell’appennino che tornerà ad essere solo se stessa.