Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Marzo 2017.
Sì, all’hotel San Michele, in via dei Giardini a L’Aquila, scatto le ultime fotografie , davanti all’elegante struttura di accoglienza alberghiera, l’ultimo tassello di un puzzle – e lo capiremo alla fine di questa storia – quello mancante, tessera di un mosaico apparentemente ricostruito, ma solo per avere un quadro completo, forse, mi sono detto, in questa mia avventura iniziata a metà gennaio, dentro un social come facebook , dove provo a raccontare, a narrare, e qualche volta a guardarmi indietro, molto indietro…1996.
Partiamo dal personaggio, “l’attore” principale e la sua “location”, e da un presupposto, apparentemente lontano da questo racconto: la luce, quella luce particolare che scende, inonda come una cascata e finalmente si fa giustizia senza più compromessi dentro quel vuoto d’ambiente, quel rettangolo inclinato, disegnato molti secoli fa nella “città nova”, come invece viceversa è la luce che “cambia” colore tra le quinte dei palazzi, i cortili, i vicoli stretti, gli slarghi della città dell’Aquila, che penetra diagonale, maldestra e insinuosa, tagliente e irriverente, quella luce invece è tutt’uno con piazza Duomo, il mercato, gli ambulanti, le bancarelle, i prodotti agricoli, la gente : esplode, si manifesta, regna sovrana monocromatica e dà forza al rettangolo magico della città che accomuna, unisce, aggrega le persone che lì hanno vissuto, nella piazza, gran parte della loro vita, con tutte le loro storie personali.
Marzo 1996. L’inizio.
Per cercarlo, il personaggio, siamo partiti, quindi, dal mercato di piazza Duomo, dagli ambulanti, dalle immagini d’epoca della città e dai carri trainati dagli animali, come in una sceneggiatura che si tiene in un cassetto, e forse non diventerà mai un film. Il facocchio, il personaggio, ci dice subito “la Fiat dell’Aquila”: l’annuncio, di un “programma” la sua dichiarazione, forse un manifesto, sicuramente una storia leggendaria della città dell’Aquila. Rigiro tra le mani alcune fotografie d’epoca relative agli Orti Cipolloni, nei pressi della Villa comunale, e via dei Giardini, dentro le mura, a sud – est della città dell’Aquila dove più tardi incontreremo di nuovo il facocchio che ci ha dato appuntamento, davanti una grande porta in metallo scorrevole.
( Primo tempo…). Via dei Giardini fu aperta con un lavoro di sventramento, secondo il progetto del 1933, e sicuramente creò perplessità e apprensione, quasi una premonizione a Mastro Alberto, classe 1861, che nella piazzetta delle Acacie, lì vicino, aveva la “bottega deglju Facocchiu”: fu demolita per allargare Corso Federicico II e lui, con gli attrezzi, le manbrucche e i conigli che un paio di decenni prima, giornalmente, si muovevano in direzione degli orti Cipolloni ( Villa comunale) tra le gambe delle signorine dagli eleganti abiti lunghi del Liberty con gli ombrellini per coprirsi dal sole, si trasferì in via dei Giardini “ perché dovevamo rimanere nella zona” ci dice Carlo Fossi, che ci ha raggiunto, nipote di Mastro Alberto, terza generazione del facocchio (facòcchio singolare maschile, comp. di fare e cocchio. Chi costruisce o ripara carrozze trainate dagli animali), mentre apre la porta scorrevole dell’officina, che immette in una sorta di macchina del tempo, un “deposito” di conoscenza della cultura materiale, uno scrigno dei saperi di un’arte povera, un catalogo di un mestiere di un’altra città ( vedi scheda al termine del racconto), e lo vedremo: l’officina in via dei Giardini, la bottega del facocchio, ancora conservata con cerchi in ferro, assi di legno, forgia, macchinari a mano per il trapano, utensili di lavoro, banco per tornire il legno e lavorarlo: reperti, che potremmo vederli in un museo di archeologia industriale. All’interno, nel cortile e sotto le tettoie, si costruivano i carri, le mambrucche, le “vignarole”, il calesse, le bighe, “ le vetture di oggi della Fiat…”. Per metterle insieme, ci dice, “ci voleva una settimana con tre o quattro persone che lavoravano i pezzi”. Entriamo, Fossi chiude la porta scorrevole alle nostre spalle e inizia questo back-ground nella cultura materiale e nella memoria dei costruttori di carri, in fondo un viaggio tra le pieghe di una micro storia tutta aquilana.
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( Secondo tempo…) “Dai Piani di Cascina – continua Fossi – i contadini, all’imbrunire, per cercare di nascondersi, arrivavano all’Aquila, passavano per via XX Settembre che era tutta polverosa, con i muli che portavano sul basto, la sella, due tronchi lunghi di faggio sproporzionati come carico, ma che noi lavoravamo per fare le stanghe al carretto. Nel 1937 un carretto costava anche 800 lire; nel 1947 in media costava 10.000 lire. Si combinava, a volte si faceva il baratto con il valore del grano, del maiale, delle patate per comprare un carro”. Quattro erano le arti minori, le quattro stelle dell’artigianato aquilano, che si riunivano intorno alla costruzione del carro, raro esempio di capacità interdisciplinare che sommava diversi mestieri. Il lavoro di falegname si integrava con quello del fabbro, del ferramenta e della decorazione pittorica come conferma Fossi: “Dai blocchetti di legno di cerro, a mano, si ricavavano i raggi del carro; dalla noce le centine e il mozzo; l’olmo per le traverse e il faggio per le stanghe; oppure i bulloni si facevano a mano. Preparavamo le teste battute calde all’incudine e scaldate alla forgia. Le sbarre in ferro si tagliavano, si piegavano con il calore della forgia, si battevano e si univano a caldo sull’incudine, poi diventavano i cerchi intorno alle ruote in legno. I carri infine venivano dipinti con i colori aquilani” . “Mio nonno – continua Fossi – aveva la bottega nello slargo della piazzetta delle Acacie, dove oggi c’è il cinema Massimo, il Grande Albergo e la Previdenza sociale. I carrettieri venivano da Porta Napoli, si fermavano da mio nonno. Era una posizione strategica. A piazzetta delle Acacie facevano la sosta. Erano i toccolani o i contadini della Valle Peligna. Avevano viaggiato da due giorni per vendere al mercato dell’Aquila. Dormivano dentro i carri, a fianco gli animali. L’ultimo carro l’abbiamo costruito nel 1966”.
Un procedimento complesso, articolato, la costruzione del carro. Le regole erano molte, i componenti autonomi si lavoravano separatamente, in una sorta blocchi di montaggio, e poi si assemblavano, “ come alla Fiat”: si parla di convergenza delle ruote di legno, di assale, di sponde in legno, capacità di carico, vano in legno che conteneva gli utensili per la manutenzione e riparazione del carro, freni manuali, lampada a petrolio per i viaggi notturni, catene per tenere il carico, agibilità del carro dentro i terreni sterrati, montacarichi, giogo ed equilibratura, cinghie e perni laterali in ferro, messa a punto della trazione: il carro, trainato dall’animale, non doveva scomporsi. Poteva accadere, anche due volte l’anno, che i carri dovevano essere riparati e consegnati subito per i lavori nei campi. Si lavorava anche di notte nella stagione dei raccolti e dei mercati stagionali del comprensorio aquilano, e soprattutto nelle fiere. Da Arischia, le arche ( madie) in legno di faggio, smontate a pezzi e numerate, venivano trasportate sui carri trainati dagli animali. Si acquistavano, e poi venivano ricomposte nelle cucine contadine. In alcuni passaggi della descrizione del carro non lo seguo più ed è inutile cercare un manuale. Questo “arsenale” dei saperi fuori dal tempo, di tradizione orale, non ha scrittura ed è stato ereditato quasi fisiologicamente attraverso la trasmissione delle esperienze, con la conoscenza sul campo dei materiali e delle tecniche di lavoro.
Marzo 2017.
Hotel San Michele, via dei Giardini. Qualcuno mi vede ed esce dalla struttura turistica, forse incuriosito dagli scatti fotografici, si avvicina, capisco, lo anticipo, metto la mano dentro un borsone, e gli mostro le foto dell’officina del facocchio. Sì, gli dico, proprio lì, dove ora c’è l’Hotel e la palazzina, abita la memoria della “Fiat dell’Aquila”, il suo passato, la sua storia narrante, che è stata tolta dall’oblio. A qualcuno potrà servire… ( Fine del film… ).
La “Fiat aquilana” e il suo indotto.
La bottega del facocchio, la “Fiat dell’Aquila” aveva il suo indotto, i laboratori artigiani, che provvedevano a realizzare i “componenti” del carro che poi venivano allestiti nell’officina del facocchio. In via Castello (“i funari”, Rovo Giuseppe); piazza della Prefettura (“i sellari”, finimenti per i cavalli, Ibi Pasquale); via S. Antonio Pinto (“i mastari”, De Santis); via S. Giusta e S. Flaiano ( “i sellari”, Liberatore); via Cascina e Vico Troiani ( falegnami, legno grezzo, Di Cola); via Fontesecco e via Giorgetto (tornitore, Tanturri Armando); ss17 bis, sotto le mura (tagliatore tronchi, Paolo Parisse e la segheria del Vetoio); via S. Giusta (ferramenta, Maurizi), forniva i colori per decorare i carri. Il rosso, il minio di piombo, il blu oltremare. Si utilizzava l’olio di lino come base, e la biacca, una polvere bianca; piazza Duomo (ferramenta, Fiordigigli); piazza della Prefettura (ferramenta, “Pierino”).
Fotografie d’epoca dell’officina del Facocchio e degli antenati della famiglia Carlo Fossi, gentilmente concesse.
Immagini d’epoca della città dell’Aquila tratte dai volumi : Quattro passi pè L’Aquila de ‘na òte, Aquila in cartolina, Aquila tra Ottocento e Novecento, gli Abruzzi in cartolina.
Le immagini, le fotografie in sequenza.
Il mercato di piazza Duomo prima del sisma del 2009, l’officina del Facocchio in via dei Giardini, le immagini della famiglia Fossi e degli antenati, il carro agricolo e Carlo Fossi nelle campagne di Monticchio, le immagini d’epoca di piazza Duomo, piazzetta delle Acacie, via dei Giardini, il Corso, la Villa comunale e i carri agricoli, l’Hotel San Michele in via dei Giardini.