Sopra, la fotografia, “La misurazione del tempo”, l’orologio dei pastori della Maiella.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Siamo saliti con un “carrozzino”, l’Ape, nel cassone, dietro, stipati tra involucri di pali e corde, tende, ceste, masserizie varie, direzione lo stazzo che raggiungeremo più tardi, ma prima i tornanti e i picchi calcarei, la vegetazione sovrastante che guardiamo, sdraiati e sballottati, sbattuti insieme alle cose del carico: molto più di un viaggio, molto di più di spostamento, di un avvicinamento crepuscolare verso i pascoli dell’alpeggio avvolti da una oscurità che scende, si allunga, si insinua dai colori misteriosi che coagulano, indefiniti, del vespro: “La luce della Stella del Vespro non cresce né diminuisce. È mia, da donare a colui che desidero. Come il mio cuore” ( così narrato nella storia di Aragorn e Arwen, Il Signore degli Anelli), leggenda che si fa mito, nella natura piegata alle passioni e negli elementi che si fermano, sì, proprio così, che si fermano, e aprono un varco misterioso, un passante, per “attraversare” il tempo convesso che si piega, forse come intorno a noi, oramai, con le sole luci fioche l’Ape Piaggio si apre la strada, e dentro la notte una geografia capitolata, senza più punti di riferimento, che ci siamo lasciati alle spalle.

E poi l’arrivo, infine, tra le fiaccole portate a mano che si muovono, il latrare dei cani, un grande braciere centrale, la sagoma costruita dello stazzo, le capanne in pietra, i recinti in legno: l’accampamento, l’insediamento pastorale, il più alto in quota, il limite “conosciuto” alle pendici occidentali del grande bosco della Majella: “Prati della Macchia“, nel comune di Pacentro, una macchia, appunto, una radura dove abiteremo, tra le faggete secolari, i miti e di nuovo il “tempo”, ma che qui si misura in un altro modo dentro una storia senza scrittura, solo da raccontare, da provare a narrare.

Trascorreremo dall’arrivo solo poche ore dentro la tenda ai margini dello stazzo, un pastore è venuto a chiamarci ed è andato via. Ma non possiamo uscire. Intorno alla tenda, acquattati, quasi a formare un perimetro, i cani mastini abruzzesi, grandi macchie bianche percepite. Noi e la tenda siamo una minaccia, un “corpo” estraneo, incomprensibile ed enigmatico per loro ma che con un richiamo, un fischio secco e breve, dall’oscurità, siamo intorno alle quattro e mezza di mattina, i cani si alzano, abbassano la testa, sono richiamati, riusciamo ad illuminarli con le torce elettriche, si incamminano, quasi in fila fino nello stazzo con la coda bassa, si riposizionano. Adesso ci ignorano. Il varco è aperto. Possiamo raggiungere i pastori, percorrere poche decine di metri fino al focolare, all’aperto.

Tra i due grandi recinti costruiti con pali e corde, il “guado”, il passaggio delle pecore, che strette tra i pali di legno infissi nel terreno in un corridoio, si fermano e vengono munte. La mungitura è già iniziata e il latte, scaldato con il caglio, verrà trasformato in formaggio, molte ore più tardi. Ma adesso il pasto, unico, che vale per tutta la lunga giornata del pascolo che si annuncia fino al tramonto (anche per noi al seguito per le rilevazioni), sì, alle cinque è servito: carne di pecora alla brace gettata su un’enorme griglia da prendere con le mani, olaci bolliti e poi fritti, riuniti quasi a formare una specie di parrozzo, con uova e formaggio sopra e peperoncini infilati ai lati: sembra un albero di natale e vino, tanto vino. Il pasto ci viene offerto.

Neppure per un attimo abbiamo pensato di rifiutare, in questa che sembra una sorta di sacrificio per ingraziarsi un mondo parallelo: quasi che il cibo fosse lo strumento per riconciliarsi con una divinità o un antenato, per chiedere protezione. Sono questi i nostri pensieri che rimbalzano, catapultati in quella dimensione desueta, “altra”, in piena notte, “ospiti” forestieri, stranieri, stare “al di fuori” di tutto questo e non accettare quelle forme alimentari (come chiamarle) sarebbe un affronto, un diniego inconcepibile, per i pastori, ma sbattuti come siamo dai cambiamenti, accettiamo, seduti in cerchio intorno al fuoco, come in una cerimonia profetica, con le facce livide.

Ci siamo trascinati dalla stanchezza accumulata con le macchine fotografiche a tracollo che sbattono da tutte le parti, i registratori annusati dai cani, i quaderni degli appunti imbrattati a terra e i fogli per i rilievi e i disegni sul campo dell’insediamento pastorale sparsi e bloccati dalle pietre, rischiarati dalla luce del fuoco, dentro una notte stellata, lunga, da provare a svuotare come non mai, fatta di tante, troppe cose, “tenute strette con un laccio per non disperderle” come nel linguaggio simbolico e nelle parole di San Paolo “tra il bene e il male, tra luce e tenebre“, che sembrano ritardare il chiarore del giorno, un giorno, che ritorna, lontano, di circa 30 anni.

 

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Nella fotografia in basso, da sinistra, Vincenzo Battista e Bruno Ramunno. Stazzo “Prati della Macchia”, anno 1985.

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