I cacciatori del ghiaccio. La neviera del Sirente. Il ritorno.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Secinaro, 12 settembre 2021. Il campo base, chiamiamolo così, gli “sherpa” locali vanno e vengono, la preparazione e la pianificazione non semplice, il colloquio con gli anziani cacciatori di ghiaccio che ci aspettano per comprendere il sito, il percorso più adatto per gli animali con il basto per il carico del ghiaccio, il bosco sconvolto da una “gravara” che ha abbattuto le fustaie di faggi, sradicati, piegati con il peso del ghiaccio e soprattutto dal vento: Il sentiero si è chiuso in alcuni tratti, le mappe topografiche da aggiornare sul campo, le voci si rincorrono poiché lì diventa complicato attraversare la selva con le “bestie”, la pista bisogna aprirla con le roncole, gli animali da portare fin lassù dopo 70 anni con tutte le incognite e le insidie, il tracciato sulla lunga brecciaia ( l’ultimo passante curvilineo che s’inerpica, sale ripido e impervio, più sensibile per gli animali da tiro) a tratti sepolto e cancellato, si affonda nel pietrisco e rimanda giù nei passi. Sabatino e Vitaliano Santilli ( sono i figli dell’ultimo mulattiere del Sirente), si unisce Luigino Barbati di Secinaro, sono loro che guidano la carovana fino alla neviera. Le foglie e il fieno da utilizzare dopo i tagli, la previsione se tutto va bene di sei ore, le condizioni meteo. La casa dei fratelli Barbati è un via vai, Luigino incollato al cellulare, si pianifica, ultimi istanti, anche nella tarda notte precedente il viaggio. Si decide intorno all’alba. Si va.

Il sito della neviera, il suo nord geografico. Il massiccio del Sirente inciso ed eroso dalle valli. Un antro geologico quello che cerchiamo, il suo corpo plasmato e irrequieto ma armato di alte quinte dolomitiche frastagliate, che vive e respira quasi fosse un fossile restato in vita che manda i suoi bit, sibila, in una nicchia nascosta e intima, e ci aspetta, prodotto di particolari condizioni geo – ambientali, micro – climi, carsismo sepolto che pulsa, stratigrafia e rocce sedimentarie respirano e si dilatano in una pioggia di detriti: scaricano il materiale lapideo nel suolo quasi lunare, essenziale, con il sottofondo dello stridere dei corvi in quella “cassa acustica” amplificata si gettano in picchiata. Non concede nulla se non pietre su pietre, rocce affioranti e nulla. I peschi, così chiamati, sono formazioni emerse, ma sembrano braccia aperte, oppure creste di animali preistorici che scendono a valle ed entrano nel suolo, serrano il “corpo” e cingono le valli: valle Lupara (Majori) con peschio Fracido e peschio Scurribile; valle Scurribile con peschio Pedone; valle Serrata (la neviera) con peschio Pedone e peschio Gaetano e infine l’ultima valle a sud – est chiamata Brecciarola : così in una rara mappa catastale ideogrammatica del 1877. Il fenomeno del dilavamento e scorrimento a valle a seguito degli innevamenti, poi, nella grande brecciaia luccicante, abbagliante e dal caldo asfissiante delle pietre che precipitano per l’inclinazione fino al limite del grande bosco “Canale” che sembra tenere e porre un argine naturale: è questo il suo torace rigonfio e su, all’estremità, la testa – torre, come un fortilizio inaccessibile, fronteggia il paesaggio concavo della valle dell’Aterno, i borghi del Gran Sasso e la stessa dorsale appenninica elevata, la valle Tritana sullo sfondo. La testa e la sua bocca incavata e protetta si ciba, soprattutto la sua lingua (quella a noi interessa), infine, ma di ghiaccio solido che puoi solo scalfirlo, “visitata” dagli animali del bosco: lupi, cervi, caprioli, volpi, uccelli, quasi fosse un catalogo del regno naturale, lasciano sul ghiaccio le loro tracce. È Lunga, sinuosa, la lingua, battente si dilegua e segue il suo basamento rigonfio nelle incisioni della parete a strapiombo che la proteggono in uno “spartito musicale”, e si distacca da essa, basica e profonda diversi metri in una lunga fossa, in un cucchiaio di un fronte esteso: la neviera del Sirente ( forse si dovrebbe rivedere la categoria di appartenenza, poiché è una struttura stratificata di accumulo, formazione perenne nevosa trasformata in ghiacciaio solido e statico nella sua conservazione, che può forse competere con il disfacimento del Calderone). Ma qui, in questi 2000 metri di quota, in questo altare naturale che ne conserva il mito, è la neviera la divinità protettrice solitaria, il centro di questo universo logos della povertà e del lavoro estremo nell’Appennino centrale e del borgo di Secinaro sconosciuto, in questo mondo preistorico senza tempo che gli fa da sfondo, sembra fermarsi, insieme a noi giunti infine al sito della neviera, forse un pellegrinaggio, un ritorno ( dopo il volume “ La via dei carrettieri – anno 1997 ”, ma allora senza la carovana di animali), certamente un’impresa questa e lo vedremo, nel ventre della barriera del Sirente. Qui, adesso, con noi i cacciatori del ghiaccio saliti con i loro animali per tagliare, caricare e trasportare a valle “l’oro” del Sirente così chiamato, dopo circa 70 anni: un evento.

Graziani Francesco, classe 1935: “La neviera sotto la rocca, dicevano gli antichi”. Il suo racconto. I muli si portavano con la capezza e sopra “l’impasto” della sella. Da Secinaro ci volevano due ore con gli animali. Intorno ai 17 – 18 anni Francesco caricava un quintale e mezzo di ghiaccio, si tagliava con l’accetta – racconta -, si lavoravano i pezzi e si ricoprivano con foglie dentro i sacchi di iuta in fibra vegetale. Il tempo per lavorare era di due o tre ore. Se si spezzavano i blocchi, bisognava tagliarli di nuovo. Erano blocchi di 40 centimetri per 40, lunghi anche un metro: due pezzi rispettivamente ai lati dell’animale e sopra la sella anche tre pezzi. Si partiva da Secinaro alle tre di notte e si arrivava alla neviera il mattino presto. Dopo, a Secinaro, si portava il ghiaccio in cantina, e verso mezzanotte si ripartiva con i muli. Con la neve si campava. Il ghiaccio si portava a Pratola Peligna, a Sulmona, Popoli e si vendeva alle trattorie dell’epoca, alle locande, tutto questo intorno agli anni 1950, ’51. Lì si comprava vino e gassosa e il ghiaccio, dentro i tini di legno, serviva per rinfrescare. In quei paesi si arrivava alle sei di mattina e la perdita di neve era poca. I sentieri erano puliti, tenuti in ordine per far passare gli animali. Con la vendita del ghiaccio si guadagnavano quelle trecento, quattrocento lire che erano tante, importanti per la famiglia. La neve si prendeva il mese di luglio e agosto, ci chiedevano in continuazione il ghiaccio per i mercati e le fiere e le feste patronali delle valli. Andava molta gente e le trattorie avevano bisogno di rinfrescare le bevande. In una settimana si saliva alla neviera anche tre volte. Con il ghiaccio si guadagnava molto di più che con la legna. Siamo andati fino al 1952 alla neviera, un pezzo di ghiaccio era oro. Il percorso: Da Secinaro a Pilostro, la piana di Canale, Fritto, piazza d’Arme, la gravara, sentiero scurribile e la neviera. Si iniziava a prendere il ghiaccio alla base dei canaloni, sopra il bosco, e solo quando questa finiva si andava alla neviera che c’era sempre. Cadevano i massi dalla cima, cadevano le pietre. Intorno ai blocchi di ghiaccio si mettevano quattro paletti di legno per non farli spezzare, tenerli compatti, quando si trasportavano a valle con i muli.

Un blocco di ghiaccio che abbiamo portato dalla neviera è sul tavolo, girato tra le mani davanti la casa dei Barbati, dove tutto è partito, fotografato quasi fosse un reperto, osservato nasconde qualcosa di arcano, un “deposito” di memorie lontane, molto lontane dal nostro tempo, ma un colloquio infinito forse con “un’altra montagna” che ha segnato i destini solitari . Infine, dentro il bosco di Canale, attraversato con gli animali: destinazione la neviera, si aprono le piazzole dei carbonai, radure armate in pietra a secco ai bordi, semi – circolari, per contenere il peso del cono di legna di centinaia di quintali dopo l’accensione. Al centro, se si scava, si trova il carbone vegetale. Da Tornimparte le compagnie dei carbonai, a piedi, si spostavano sul Sirente, allestivano le capanne per ricovero con i tronchi di legna e le fronde dei faggi, lavoravano il carbone vegetale nei boschi e alcuni sono rimasti, sposati a Secinaro: Fabiani, Trapasso alcuni cognomi.