Testo e fotografia Vincenzo Battista.

La coltura agrumicola a Limone, nel lago di Garda, risale ai primi anni del Seicento. Una pittura datata 1658, un ex voto, ritrae Sant’Antonio abate e i pilastri della limonaia nella protezione invocata. Il commercio si avviò nella seconda metà del Seicento nella poverissima economia del borgo limonese. L’acqua dei ruscelli che scendono a valle del lago, l’ambito riparato e protetto dal clima, il declivio su un poggio, sono stati gli elementi naturali per la costruzione di giardini pensili chiamati limonaie. Strutture a più ripiani in diverse dimensioni, terrazzati, collegati da scale in legno e con muraglie di contenimento che chiudevano in tre spazi la coltivazione, garantendo l’esposizione verso est – sud- est, ottimale per la brezza tiepida del lago, anche in inverno. La terra veniva portata con le ceste nei ripiani allestiti e scavati nella roccia, il tetto spiovente, i pilastri in legno di castagno legati tra loro con corde e piantati al suolo costituivano, quest’ultimi, il telaio, la struttura della coltivazione a cui si appoggivano le piante dei limoni. La forma pensile ripartita con le travi veniva coperta ai primi freddi con assi e tavole di abete. 16 – 20 metri quadrati la superficie, detta campo o campata del giardino in un terreno grasso e pulito che veniva lavorato continuamente. La prima fioritura a maggio e poi giugno e luglio. I frutti venivano suddivisi in tipologie: fini, sopraffini, scarti, scartarelli e cascaticci. Economia di sussistenza del lago con un enorme produzione, non più redditizia, cede a una nuova mentalità e soprattutto l’isolamento, congenito, è liberato con la costruzione di vie di comunicazione da Limone ai centri limitrofi. Nuove economie s’impongono e le limonaie vengono dismesse. A limone sopravvive una limonaia, esempio concreto del lavoro di cultura materiale e ingegno umano in un contesto geografico aspro e difficile un tempo.