I totem di pietra della Conca aquilana.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Un gioco, quasi sicuramente un gioco quei totem alzati dal suolo e costruiti dalle voci animistiche dialoganti, ci piace pensare: feticci, idoli di un gioco in definitiva, ma, viceversa, proviamo a pensare di scaraventare lontano, riannodare nel tempo e nello spazio quella “funzione” – la chiareremo così – quelle pietre sovrapposte di arenaria che con grande perizia sono state erette sulle anse del lago di Campotosto. Compendiano forse, riducono a una comune comprensione gli antenati delle valli dell’Appennino, riassumono così uomini, coscienze e miti leggendari di migliaia di anni che calpestavano questo suolo. Sì, la pietra divenuta “parola”, linguaggio comune, accettato e riconosciuto da tutti, anche qui, forse, un tempo, quella parola abitava nella pianura di Campotosto prima, molto prima del lago con le sue lingue di pietra calcaree puntate verso il cielo , in questo distretto geografico, e più a sud invece, scendendo nella Conca aquilana, lo vedremo, le lingue di pietre diventano fenomeni, indicatori puri e certi di etnie tribali: le stele della lunga fila di menhir (blocchi monolitici), ancora dal significato occulto da decriptare, nel divenuto parco archeologico della necropoli di Fossa ( IX – I a.C.) poi, ma più tardi, lo vedremo. Adesso, invece, i totem di Campotosto, definiti ometti di pietre, dal neolitico si tracciavano i percorsi, si segnava il territorio e lo rendevano abituale. Dal deserto del Gobi, alle cime dell’Himalaya, alla Cordigliera delle Ande e in Europa presso i Celti, nel Portogallo, in Francia o lungo le coste della Scandinavia gli ometti di pietra nei loro cumuli tracciavano la caccia, le distanze e i sentieri dei cacciatori nomadi e seminomadi per poi andare oltre: diventavano mucchi di pietra votivi e religiosi per i Galli e Romani nei valichi alpini o nelle creste di montagna come possiamo vedere ancora dal Gran Sasso d’Italia ai gruppi montuosi contigui, con la funzione di indicare anche la sentieristica. Con la loro forma antropomorfa in alcuni casi, gli ometti di pietra celavano un messaggio, marcavano il paesaggio, assolvevano a un compito nell’evoluzione della “mappatura” del territorio finalmente conosciuto e reso meno ostile. Ora i menhir della necropoli di Fossa. Le sepolture a tumulo e quelle lastre di pietra decrescenti che lasciano il cerchio di massi e si allontanano…, lingue di pietra rinvenute così come sono state ideate nel loro enigma che aspetta,  provano a comunicare con noi per quello che ci hanno lasciato, come certi messaggi ritenuti straordinari arrivati dallo spazio, da decifrare ma per adesso è troppo presto ( misteriosi segnali radio dallo spazio profondo – sei impulsi di pochi millesimi di secondo e per la storia della radioastronomia il secondo evento di una galassia lontano circa un miliardo e mezzo di anni luce, registrato in Canada). Così la necropoli di Fossa dal grande potere evocativo, le stele e il luogo della liturgia funeraria, deposito culturale senza scrittura da decifrare, non solo pietre ma attesa, sì, attesa per capire il loro spazio – tempo cosmico, quel sito e il protocollo cerimoniale, i nostri antenati in definitiva, loro, oggi, aspettano di comunicare con noi…ma è ancora troppo presto…