
Testo e fotografia Vincenzo Battista.
“Maestri d’ascia, e falegnami di questa fedelissima Città, tutti coloro, che lavorano e vendono cose di legno lavorato, come sono scultori, intagliatori, ebanisti, tornitori, cerchiari, ed ogni altro artista che faccia qualunque lavoro di legno che si vede . . .”, nel 1750, chiedono la costituzione di regole e norme per la congrega “delli falegnami di Aquila” (manoscritto Emidio Mariani (1770 – 1850) – Memorie Istoriche della Città dell’Aquila – in Biblioteca Provinciale L’Aquila), una sorta di codice etico di amministrazione e governo dell’antica arte, norme, diritti e doveri degli iscritti, riuniti nelle forme e nei precetti da darsi, da passarsi, nella Cappella di San Giuseppe della chiesa di Santa Maria Civitatem. ”Nella festa di San Giuseppe – è prescritto nelle carte del documento manoscritto – devono comunicarsi alla Cappella, e colui che mancherà di intervenire, senza giusta causa, o licenza del Priore, debba ogni volta pagare grana cinque a beneficio della Cappella, e mancandosi della comunione, debba il priore dargli una competente mortificazione. . . Dieci giorni prima della festa di San Giuseppe debba ogni Maestro pagare per la stesa mano del tesoriere grana venti, ed il lavorante che tira, paga grana dieci. E il giorno della festa debbano tutti intervenire nella Cappella, purché non infermi, o assenti per licenza del Priore, sotto pena di carlini cinque il Maestro, e grana venticinque il lavorante. . .”, che da qualche parte avrà pur visto la sua “icona” elevata a simbolo, immaginiamo, di appartenenza e prestigio, finalmente raggiunto per una corporazione marginale e defilata come quella dei falegnami nelle ricche arti e corporazioni aquilane, poi ritratta nei santini, o dipinta, rappresentata iconograficamente nel culto che esprime, con i suoi attributi: San Giuseppe lavoratore, i suoi strumenti da falegname o il bastone fiorito. Ed è rappresentato proprio in quest’ultimo modo nell’olio su tela (98 x 77), anonimo di scuola napoletana, del XVIII secolo, “San Giuseppe e il Bambino Gesù” (dal catalogo di M. Moretti, anno1968, Soprintendenza BSAE L’Aquila, opera restaurata nel 1968). Il bastone secco improvvisamente germogliò per volere divino, il segno rivelatore che lo indicava tra i tanti pretendenti come il prescelto per sposare Maria, padre adottivo di Gesù in questa festività del 19 marzo, protettore degli artigiani, carpentieri, ebanisti, economi, falegnami, operai, padri di famiglia e procuratori legali.
Nell’olio su tela, che evoca molto i “santini” della devozione popolare che i fedeli portavano con sè, quindi, in un” bagno di luce”, proveniente dalla sinistra, nell’opera così concepita, in una iconografica in contrasto con i toni scuri che avvolgono i due personaggi, possiamo immaginare d’influenza tardo caravaggesco (anche nel secolo successivo), San Giuseppe è raffigurato con la barba folta accarezzata da Gesù Bambino, anziano e umile con una saggezza serena rivelatrice, che non ha uno sguardo stereotipato e assorto, ma che ostenta viceversa un iniziale sorriso tutt’uno con la restituzione del gesto della piccola mano di Gesù (in un naturalismo pedagogico), lui inclina il capo nell’atto di accogliere la tenerezza del Bambino e, infine, ci guarda concentrato e composto, serio e attento verso l’osservatore del quadro. San Giuseppe, poi, in una plastica e delicata posa con la mano destra “sfiora” Gesù (per proteggerlo e tenerlo) ma quasi a non toccarlo, prudente e mosso dal rispetto ossequioso, in questa iconografia in cui non è pensieroso (comprende il suo ruolo…) come narrano certe interpretazioni dei vangeli apocrifi e non solo nella pittura, soprattutto di Giotto, che lo vogliono personaggio addirittura minore nei grandi temi della Natività, distinto e “distante” con un ruolo marginale nell’Adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto e il Ritorno a Nazareth. Mentre è nelle devozione popolare che la sua paternità divina in Cristo, la sua esaltazione, nell’umiltà, tra la gente, assume rilievo solidale, determinandone un’iconografia vicina alle famiglie, le quali, molte, nei giorni che precedono il 19 marzo e anche oggi, nei centri dell’aquilano, invitano i poveri, gli emarginati a stare nella “famiglia”, serviti a tavola: esiliati, immigrati, ex comunitari, sfruttati, sottopagati, tanti “Joseph” – raccontano alcune testimonianze a bassa voce e senza proclami – che ogni anno rinnovano questo precetto, atto simbolico “dell’invito”. Nulla di più di un paradigmatico appuntamento, ma tanto di più per quelle storie di esodo forzato dalla miseria, vicine a noi, presto dimenticate, allontanate e scaraventate lontano, ma che infine ci appartengono se solo avessimo, in questa società liquida in cui viviamo, il tempo di osservare oltre il senso di precarietà e incertezza e il disgregarsi delle relazioni.
L’immagine in bianco nero dell’opera d’arte tratta dall’archivio storico del Museo Nazionale d’Abruzzo – L’Aquila.