La montagna incantata e il suo testimone solitario. La processione del borgo di Assergi e il racconto di un miracolo.
lunedì 4 giugno 2012 19:42
di Vincenzo Battista
Lo sguardo fisso, austero, ascetico, ieratico; il volto incavato, la barba che scende sugli zigomi pronunciati e sul capo, l’aureola, dorata, segno di santità. La statua si completa con la pianeta verde sacerdotale che si piega, in un gioco di panneggio sull’esile corpo minuto, oltre la mitra, arricchita di foglie d’oro della doratura; il santo, in piedi, benedicente con la mano destra, mentre con la sinistra sorregge un libro. E’ la scultura in legno del XV secolo, arte abruzzese, che rappresenta San Franco, conservata nella chiesa di Santa Maria Assunta ad Assergi, secondo lo schema delle rustiche icone lignee del Trecento, sbozzate da queste parti con asce e sgorbie artigianali in tronchi di castagno, rovere e quercia, e rese policrome per il popolo del contado, contadini e pastori in definitiva:’il popolo minore’.
Quanto basta per far trionfare la religiosità popolare in una scultura che non richiede sfarzo, che non cerca il lavoro dell’artista o di ricche committenze, poiché il suo uso è quello di stimolare le ricorrenze ‘intime’, il suo posto è la devozione popolare nella processione del borgo di Assergi, per celebrare il rito tutto chiuso nell’ambito montano, ma che si identifica però con una spiritualità diffusa, che non conosce ‘fratture’: fede unanime “di un popolo sobrio e forte” per un uomo simbolo delle qualità morali, l’eremita Franco.
Nella selva di Assergi, alle pendici di Pizzo Cefalone, nella seconda metà del XII secolo, mutò per sempre, con la sua presenza, il senso, la concezione dello spazio del lavoro: dai contadini ai boscaioli viene in aiuto, “pettina” il paesaggio, la forra impenetrabile; rende, San Franco, antropizzato il contesto geografico intimando al lupo, alla fiera, metafora del male d’insicurezza per merci e beni viaggianti, di restituire il neonato che aveva sottratto ai genitori, divenuta infine, per questo, “domicilio” la montagna, luogo dei “segni”, degli eventi soprannaturali, mitici, per tutti, finalmente liberi dalle angosce medioevali, e dalle paure dell’ignoto.
Il misticismo anacoretico, la vita nella grotta e la capacità di profezia come prerequisiti della vera “Imitazione di Cristo” raccontano la vita di San Franco, peregrinante con “una catinella et un pugno di sale”, dove non è più sufficiente per gli eremiti “Il saio è la mia cella”, ma spingersi, oltre, fino all’incorporamento nel ventre, nelle viscere della montagna, ultimo estremo atto, conclusivo e rituale, per vivere la solitudine ascetica nella forma più pura: la grotta di Peschioli ne è testimonianza.
Scavata in una torre carsica, il pilastro che si innalza davanti alla Portella, ci svela dunque tutto questo nella sua morfologia accidentata, nei suoi tratti di rifugio inaccessibile se non attraverso una rete di corda che scendeva ancorata alla sommità delle rocce, permettendo l’accesso alla spelonca. E’ dunque questa “l’utopia” dell’asceta Franco: la povertà assoluta, severa, in contrasto con i vizi in cui erano caduti gli enti ecclesiastici in seguito al loro inserimento nell’economia curtense e negli assetti sociali duecenteschi. Lui, insieme a molti altri della conca aquilana, rappresenta un concetto fondamentale, forse il più importante, anche destabilizzante per la religione, del medioevo: l’eremitismo, il punto di non ritorno “dove tutto è isolato e insieme unificato” che conduce nello stretto sentiero della sofferenza, esperienza mistica del colloquio con Dio, fino all’apice, la perfezione, secondo la severa regola ascetica.
Il maestro dell’antropologia cristiana, il solitario Franco, indipendente, libero dalle istituzioni visse in celle e romitori nella barriera delle Malecoste l’esperienza spirituale e individuale, che non impedì l’osservazione diretta e le testimonianze da parte della gente che ne diffuse la “fama, e i suoi saperi”, rimasti intatti ancora oggi, come l’acqua che si raccoglie dalla sua fonte taumaturgica, della montagna, che prende il suo nome.
“.Che subito vi cominciò a scaturir una fonte saporita, e cristallina acqua.” scrive Nicola Tomei (anno 1715) di “Santo Franco”, che “andava per montuose selve” come i suoi seguaci, ancora oggi numerosi, sulle tracce della sua santità, alla ricerca dell’acqua che guarisce, che sana. Li vedi, salgono già dalle prime ore in una lunga fila sopra l’orizzonte del Vasto, camminano con dietro bottiglie, persino damigiane. Quando arriva “all’acqua di San Franco”, la giovane donna, ha i piedi feriti, piagati e sanguinanti. Negli ultimi tratti barcolla, incerta, si appoggia con le mani al suolo e il lungo vestito nero s’impregna d’acqua; non vuole aiuto, è lì per sciogliere un voto. Altri a piedi nudi, in ginocchio gli ultimi tratti, intonano canti, litanie, risalgono la montagna in un paesaggio essenziale, segnato dal santo su una roccia per far scaturire l’acqua miracolosa, meta finale del sentiero: una fusione spazio-temporale del mito del solitario, una cornice che solo il 5 giugno (data che segna la morte di Franco) riesce a descrivere questo scenario apocalittico declinato nel tempo, scaraventato lontano, nella storia antica degli uomini, dell’habitat, della selva e infine segnato dalla religiosità popolare, che ruota, si avvita, ancora oggi, da secoli. Uno spaccato delle comunità locali dei centri pedemontani che si appoggiano nei due versanti del Gran Sasso d’Italia, quello interno e quello adriatico; un rito annuale penitenziale di “purificazione e richiesta” al santo, custode delle acque e del Gran Sasso.
(Foto: Vincenzo Battista)