Il bosco da proteggere e la montagna di Bagno. Gli ultimi “controllori” del massiccio alle porte dell’Aquila.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Il bosco è un ente, soggetto attivo, “pensante” metamorfosi, ed ha un valore in sé, precedente alla formazione degli esseri umani. L’imperativo il bosco, da rispettare, fuori da luoghi comuni dell’ecologismo.  E se poi sono le turbe più perverse e devastanti dovute ai propri fallimenti, scopriamo immancabilmente, che trovano nel bosco da incendiare la risposta folle ai propri bisogni che così, apparentemente, vengono mitigati. Il bosco allora diventa il nemico, è lì, inconsapevole, ma reo e colpevole del mio dissesto relazionare, patologico: la vittima sacrificale per far godere quella parte del mio spirito di malattia congenita che vuole rifarsi sugli altri… (su questo c’è un’ampia letteratura sia giuridica che sociale). Oppure gli ingenti vantaggi di lobby formate, i nuovi barbari. Fruiscono dalle alte finanze investite nell’azione di contrasto agli incendi, la nuova “modernità”, ma di una tale semplicità da mettere in atto, sconvolgente, ciclica in Italia, sempre quella nell’appiccare il fuoco e aspettare… Quando non sono più sufficienti le norme tecniche e giuridiche di tutela e le sanzioni e pene, severe, che forse andrebbero riviste, applicate per i danni incalcolabili spesso agli impuniti, per esempio, che il versante dell’Alto Aterno e la Conca aquilana hanno subito. Noi non la rivedremo mai, com’era prima, dopo questa catastrofe ambientale senza precedenti.

E lo smarrimento poi, nell’immaginario della gente per la perdita del bosco, addiziona a instabilità il senso di colpa collettivo, confusione, perché la lunga fascia boschiva che corre per decine di chilometri dall’Alto Aterno povera e degradata, abbandonata e ritenuta inutile e senza manutenzione da decenni, nel sottobosco ha la sua combustione irrefrenabile, la carica esplosiva che arde e scoppia con alte lingue di fiamme che poi salgono sui rami delle specie arboree. Lo scopriamo, poi, come adesso accade, il bosco è parte integrante della nostra cultura appenninica, poiché generazioni e generazioni si sono evolute con il bosco, a fianco ad esso piccole economie e città formate, peculiare e significante ne hanno fruito della foresta, non foss’altro se solo volessimo considerare la sola dimensione visiva, guardarlo: la nostra formazione è vera spiritualità, incancellabile, scritta nel nostro Dna, a nostra insaputa, a volte, ma che è lì.

Saliamo nella piramide boschiva. “Fussole” lussureggiante e grondante di acque e boschi, pendici delle montagne di Bagno (m.2077), periferia dell’Aquila. Il caldo, le 240 pecore dell’allevamento di Francesco Santarelli, la sua azienda mobile. Dragone e jack e quest’ultimo che “muove” il gregge, ma le pecore non vogliono saperne di salire ( si rifugiano sotto gli alberi), tanto che Francesco prende il montone con la campane al collo e letteralmente lo trascina quando la montagna diventa sempre più rovente, le rocce affioranti calde da scaldarci i cibi, i termini in pietra ( gli omini) di confine che segnano il sentiero, sempre più su per Malepasso : un attraversamento stretto a precipizio, siloniano nella descrizione, essenziale e aspro con blocchi di calcare come totem proiettati, davanti alla pianura sud dell’Aquila che si apre sempre di più. Fossato di San Biagio, la montagna si torce, sprofonda: lì gobbe, terrazzamenti quando lo superiamo, boschi di pini ai nostri piedi, querce, spietramenti di cumuli di sassi tolti ai terreni in quota per coltivare le patate, lenticchie grano, e piazzole chiamate fondi che si fanno largo tra le rocce. Nelle anticime delle montagne di Bagno nei pressi del fondo degli Acceranni, la croce di Peschio e la capanna in pietra, il tholos unicellulare. Il rifugio per coltivare i terreni estremi della montagna, una sorta di monumento del lavoro (dentro dormivano fino a cinque persone) in questo suolo spaccato, aspro, arso dal sole, senza più erba se non nelle vallette dove Francesco porta il gregge. Inospitale, con le gobbe e le anticime che si alzano fino alle creste della montagna (qui visse e peregrinò nella completa solitudine l’eremita San Tussio, intorno alla prima metà del 1300). La vegetazione è sparita è il suolo arido, in questo “West” che sembra uscito dal film “Balla con i lupi”, senz’acqua sorgiva, sconfinata prateria, distese e paesaggi che nessuno attraversa. Vicino a noi una cisterna raccoglie le piogge, potresti bere, metterci la testa dentro se hai finito l’acqua, se non fosse che dentro puoi trovare le carcasse dei cinghiali, daini e a volte i cervi. Infine, lui, Francesco, forse non lo sa, ma è l’ultimo dei controllori del bosco e della vasta area geografica, il suo alter ego, agisce per conto e in rappresentanza di esso: attraversa il bosco, pulisce i sentieri e il sottobosco, lava e disinfetta con la varecchina gli abbeveratoi. È la gestione quotidiana di uno spazio – territorio anche con tutte le motivazioni antropologiche, ma soprattutto quella presenza umana (certamente non solo legata alla pastorizia, ma comunque è un presidio) che è stata dismessa nella Conca aquilana e non solo, declinata fino a scomparire nella sorveglianza, tutela e manutenzione dei boschi, che oggi ci fa gridare e indignare, in questa sorta di lutto cittadino, come tanti altri, senza colpevoli.