di Vincenzo Battista .

Sono arrivato qui, nel quartiere di Santa Croce a l’Aquila ancora una volta, dove ancora abitano le macerie ( novembre 2017), dove sono domiciliate quelle fragili memorie, perché adesso devo provare a “rallentare” il tempo, a navigare dentro un tempo interiore e picchettare il perimetro delle cose distrutte, cordonare lo spazio, delimitare i lembi di terra che ho calpestato per tanti anni qui, dal di dentro, mi sono detto, dentro questa specie di dimensione altra, sospesa, catartica, liberatoria di un viaggio che apparentemente non ci appartiene, ma che devo cercare, sì, proprio adesso, in questo tempo crepuscolare, e invocarlo, concentrarmi in una sorta di rito solitario, personale, perché certi momenti improvvisamente sono portati via repentinamente, carpiti, scaraventati lontano con la morte, certi momenti si perdono e si nascondono da qualche parte nello spazio e nel tempo, sono sottili e sottratti, ma poi vuoi che tornino, li scruti, anche da lontanissime micro-storie, penso, comuni a tutti, sì, anche nella sciagura, anche partendo da quei panni inzuppati di sangue, di un passato, “antico”, che mi sforzo di rincorrere, per fermarlo prima, e lentamente cercare di riavvolgerlo dopo, come un prezioso nastro, per posizionarmi come in una sorta di flash-back, come in una scena, da ripetere, più volte, in quei pochi fotogrammi di un film in moviola, e restare lì, e lì vederli, i miei ricordi, per sentirmi tra le braccia di mia madre (come nella Pietà della tempera su tavola di Giovanni Bellini), con la veste insanguinata, che urla.

Mi ha appena raccolto e sollevato dal pianerottolo del condominio, dalla tromba delle scale del terzo piano dove sono caduto per scalare la “montagna”, nel luogo, nel punto esatto, che sfioro con le dita, adesso lo tocco, l’accarezzo, perché tutto mi possa aiutare, a “guardare”, quella scena, a percepire gli attimi, i secondi troppo veloci della “storia personale”, dell’azione, in questo androne di un palazzo che non ha niente più da dire, pieno di calcinacci e dalle mura squarciate, come se io fossi adesso un’altra cosa, un’altra presenza, un “Angelo sopra Berlino” che guarda gli umani, li guarda, carichi di angoscia, frustrazioni, terrore e l’Angelo invece, sereno, consolatore, accogliente sposta lo sguardo di dolore e amore su mia madre e si accosta a lei, presenza impalpabile l’Angelo di Wim Wenders, l’accarezza, mia madre, le sorride.

Poi quella Madonna che ha in sé il messaggio della pietas, dell’umanità dolente, con il figlio in braccio esce in strada, urla la sua disperazione, cerca aiuto, piange e si dispera per quel piccolo corpo che deve essere salvato.

Ecco, il tempo, adesso è fermo, sulla strada, tutto è immobile, riesco a vedere rannicchiato, in braccio, il volto di mia madre e potrei restare così e mi basta, le sue braccia che mi avvolgono. Potrei restare così sulle sue lacrime e mi basta, e poi la gente, atterrita, il vicinato in ginocchio, come per vedere forse il Compianto su Cristo Morto di Giotto, il quartiere è sceso dalle case dei palazzi, la scena si allarga, il campo si allarga, l’inquadratura si apre. Adesso tutto è fermo.

Ma quanto resterà quest’immagine? Quando questo quadro verrà trasportato via? Scivolerà forse, insieme agli Angeli, penso, mentre mi allontano, con le mani piene di polvere del pianerottolo. . .
e con il tempo, impietoso, inesorabile che mi accompagna.