Il “grano – carbone” che non appartiene alle fiabe. Tempera, L’Aquila.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

“Le fontanelle”, Tempera (AQ). A 9 anni, alle 4 di mattina – luna piena e il cielo rischiarato dai suo riverbero – s’incamminava sotto quella luce sazia come i campi di grano che aspettavano. Davanti, Pescomaggiore (frazione – L’Aquila) e il suo cono geografico: distese di grano, vigneti e zafferano senza soluzione di continuità. Giovanni ha 75 anni, adesso. La mietitura i primi giorni di luglio, parte bassa del paese, si lavorava per i proprietari terrieri. A Paganica in piazza, come nel film “Novecento “di Bertolucci, si reclutavano i lavoratori che aspettavano per guadagnarsi la giornata. Non si negoziava, si accettava, il loro costo fissato, dovevi ringraziare con il cappello in mano. I signori delle terre avevano fatto cartello, la povertà non era in agenda e i diritti lontani anni luce. Ettari ed ettari coltivati a frumento, i poderi venivano rasi con la mietitura, squadre di uomini chini e in fila (la pittura dei Macchiaioli, il Divisionismo di Giovanni Segantini o il Realismo). I “manoppi, poi, trasportati nelle aie di Paganica e ville contigue. Quegli spiazzi per lo più erano padronali – raccontano – prima loro, poi la Chiesa, poi i piccoli proprietari, poi i coloni che si scambiavano il lavoro, si barattava (i soldi nemmeno a parlarne) nella trebbiatura del grano. L’aia, infine, bisognava “spicciarla” e subito, togliere la paglia per altri prodotti: fagioli, granturco. È questo il dopo guerra fino agli anni ‘50 e oltre, il lavoro per certe classi sociali era scambio in queste contrade. Dopo la trebbiatura il grano doveva riposare una settimana, “ribollire” dentro i sacchi e raffreddarsi. E se la Chiesa riuniva folle di fedeli in processione per le Rogazioni (chiedere alla natura di essere clemente sulle terre coltivate), poi accadeva che il grano diventava carbone: grano – carbone. Le spighe venivano attaccata dai parassiti (funghi ustilaginali), nere dagli infestanti. Bisognava lavarli nel torrente “ Riamese” – Riga di mezzo che attraversa l’agglomerato di Tempera. Le donne con i canestri e i setacci in legno immergevano il grano nel torrente, scompariva l’involucro nero depositato sui chicchi e il grano, infine, si asciugava steso sui pannoni di cotone – spesso dicono le donne – ordito e tessuto a mano con il telaio in legno. Ma perché questa narrazione? Se riavvolgiamo il nastro siamo lì, nel mulino Gasbarri di Tempera, la quinta generazione di mugnai e famiglie a seguito nell’evento offerto alla comunità, non solo locale, che compatta i beni cultuali, l’archeologia industriale, il cibo con il pane e soprattutto il grano nella sua trasformazione con le macine in pietra. La farina esce dai cassoni a diverse tipologie in questa micro – storia del paesaggio agrario e i suoi modelli narrativi, che ancora sopravvivono.

La quinta generazione del mulino Gasbarri: Carlo Silvagni, Marco Ferella, Antonio Gasbarri.