Seconda Puntata

Testo e fotografia di Vincenzo Battista

Fra’ Bartolomeo: “. . . ma col passar degli anni la fama di fra’ Pietro cominciò ad attirare al suo eremo un numero crescente di fedeli. . . erano anche pecorai ed altri poveracci dai quali egli udiva racconti raccapriccianti sulla miseria, le ingiustizie, le nefandezze dei nobili, e anche sull’ignavia, la complicità, la corruzione del clero secolare”.

Parole come pietre, queste di Ignazio Silone, dette da uno dei suoi personaggi per la rappresentazione teatrale ‘L’avventura di un povero cristiano’, un’opera letteraria pubblicata nel 1968, che segna la sua consacrazione attualizzando, e reinterpretando, la vicenda di Celestino V, fino poi a farla ‘planare’ nel testo teatrale, in un discorso diretto tra i personaggi con ampli riferimenti storici, letterari e bibliografici; un’opera letteraria che è il conflitto tra un ‘uomo libero’, Pietro dal Morrone, ammirato dallo scrittore di Pescina per la moralità e le passioni, e la ‘tentazione del potere’, il papato di quell’eremita che diventerà Celestino V, e infine la sua rinuncia.

“Io sono un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa” ci dice, citando una frase di Silone, il custode.

Mentre ci allontaniamo, guardando su il percorso da compiere, nello stretto sentiero che conduce all’eremo di Celestino V, ci piace pensare “sulle tracce e alla ricerca dello scrittore di Pescina”, il custode dell’eremo ci raggiunge, trafelato, per metterci sotto gli occhi il registro delle firme dove è scritto: “Dallo chalet di Sant’Onofrio 13.6. 1971, riparto dopo una breve sosta con spirito rinfrancato dalla gentilezza delle persone e dallo splendore del sacrario. Ignazio Silone”.

Saliamo, mentre il paesaggio della conca Peligna si allarga, dentro la mulattiera che sale e sulle pareti le croci scolpite, le nicchie scavate e i segni lasciati dai pellegrinaggi indicano che siamo vicini, molto vicini al luogo simbolo di una storia comune.

Occorre un po’ per adattarci all’oscurità della grotta e percepire quella figura che dal fondo della cavità avanza, barcollando, appoggiandosi alle pareti della roccia; poi l’uomo ci passa davanti, sorpreso forse di vederci dopo aver compiuto il suo rito, ed esce infine dalla “cella” dell’eremita del Morrone.

Ci avviciniamo e, sul fondo, ‘il letto’ di roccia, lisciata, levigata: un rialzo in pietra che è ‘l’impronta dell’eremita’. Lì le persone si stendono, pregano, si bagnano con ‘L’acqua che guarisce, libera ogni male’ che scola dalla roccia in un bacino in pietra naturale: il sogno curativo contro ogni male, contro le paure e l’ignoto, ‘assorbe l’energia latente e miracolosa’ scriveva Giovanni Pansa all’inizio del Novecento della grotta dove fra’ Pietro viveva.

Racconta un suo discepolo, Bartolomeo da Trasacco, siamo intorno al 1248 secondo alcune fonti, che egli “sudava intorno alle arti liberali e meccaniche”, rattoppando e cucendo vesti consunte sue e dei suoi fratelli. Lavorava con le proprie mani, scrivendo e cucendo cilici. Faceva mille genuflessioni al giorno “perché ignoranza e ozio non vi entrassero e per allontanare qualunque cosa di inquietudine e di tentazione . . .” Utilizzava una catena “come una cinghia che gli cinge i fianchi per reprimere gli ardori della carne”. Per sei quaresime non mangiava carne e fino a quando la luna non terminava il suo ciclo, si asteneva dai ceci, dalle “fave rinfrescate dall’acqua corrente”, dalle rape tenere e crude, e da altri legumi.

Fede e pratiche ascetiche spinte verso le più aspre pratiche per il corpo che doveva essere umiliato. Schivo dell’ambizione e della ricchezza, nella pratica della solitudine nella spelonca, come altri, lungo gli Appennini: San Franco di Assergi, Santa Colomba sul Gran Sasso, l’eremo di San Nicola di Isola del Gran Sasso, l’eremo del beato Placido di Ocre, l’eremo di Capitignano, San Venanzio, gli eremi dei cinque fratelli nella conca Peligna, San Domenico a Villalago, San Michele Arcangelo presso Balsorano e tanti altri.

Dentro l’edificio di Sant’Onofrio, che sembra poggiato sulla grotta, entriamo tra ex voto, oggetti sacri, donazioni, sculture e quadri che ricordano costantemente il luogo consacrato alla memoria dell’eremita e infine i diari dei visitatori: “19 maggio 1969, festa di San Pietro Celestino – è scritto in uno dei sei quaderni che si conservano – Pietro dal Morrone, perché è stato un santo e un Papa coraggioso. Di coraggio oggi, come ai suoi tempi, ne abbiamo bisogno . . .”.