Il pane della “pannatora” e della Passione.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

La bifora sopra la facciata, finemente lavorata nel suo capitello tardo rinascimentale, è il segno distintivo del forno comunale di Fontecchio: non ha mai smesso di funzionare, giurano “insieme al fornaio Ascenso”, che doveva procurarsi la legna in montagna per fare anche sei cotture di dolci e pane, giorno e notte, raccontano. Una volta incontrò due lupi sul sentiero delle Pagliare, con l’asino carico di legna e i lupi davanti a lui; cominciarono a guardarsi, per molto tempo, immobili, si fissarono, poi i lupi si voltarono e Ascenso non smise mai di raccontarli, quei due lupi, dentro il forno comunale, quando doveva aspettare il turno per ritirare il pane, che per le feste di Pasqua era speciale, diverso…

Dentro la massa si preparava la “messena”, la pasta che contiene il lievito, con l’acqua tiepida si impastava la farina, l’acqua per i dolci e il pane. La pasta doveva lievitare, coperta da un panno, al caldo, appena incisa a forma di croce con un coltello e segnata con un segno di croce della mano; da quella matassa si staccava la “messena”, il rilascio del pane, il lievito che serviva per preparare l’impasto per i giorni successivi. Si trasportava al forno comunale con le “spianatoie”, i vassoi in legno di faggio e quando si scoprivano dal pano che li avvolgeva, insieme alla pasta, si rivelavano i pani tradizionale della Pasqua, i manufatti dell’arte naif, popolare: le pupe di pane dolce modellate per la festa, per la cerimonia, con una funzione figurativa e decorativa ma anche alimentare, augurale, in varie fogge: le uova al posto dei seni e nel ventre, simboli di fecondità; le trecce, il vestito della festa, le acconciature dei capelli e infine le mandorle, le noci che davano forma agli occhi, al naso, alla bocca.

Qualcuno preparava le “uova pende” lessate con la buccia di cipolla, rosse, si davano ai bambini. Il fornaio per farsi pagare prendeva la “pannatora”, cioè una parte della pasta. Quando l’interno del forno diventava bianco dal calore, il pane era pronto e si infornavano i dolci, le pupe, le ciambelle, la pizza lievita con l’uovo. Per quanta miseria c’era, una donna, si racconta, trovava un fascio di legna al giorno e lo portava al fornaio per avere quel pane che serviva per chiudere lo sportello del forno, per chiudere la fessura dove usciva il calore . La pasta era quella della “pannatora” così chiamata, che si arrotolava e si schiacciava ai bordi dello sportello. Il pane lo dava ai figli e a casa riportava la legna più piccola. Sfamava i figli con la “pannatora, il pane della festa e della “Passione”.

Le immagini.

Le pupe di pane dolce e il grano.