Il pane nella notte di Natale. La Conca dell’Aquila.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

L’uomo e la donna con in braccio un bambino, nell’oscurità della notte, alla fine trovano un rifugio, una vecchia casa contadina, in un villaggio alle porte dell’Aquila, per proteggersi. Sono inseguiti. Chiedono ospitalità ad una anziana che intanto sta preparando il pane. “Signora, esclama la Madonna, perché non nascondi questo bambino dentro l’arca di legno (la madia), altrimenti lo prenderanno i farisei che ci inseguono”. Così fece. Quando entrarono i farisei frugarono dovunque: nelle stanze, dentro gli armadi, dietro gli stipiti delle porte e persino nella madia, ma non trovarono nulla. Poi andarono via, e subito dopo uscì anche la “Sacra Famiglia”. Gesù, l’anziana donna lo aveva nascosto dentro la matassa di pasta lievita, che così non fu visto. Ma poi accadde che l’impasto di pane, subito dopo cominciò a crescere fino ad alzate il coperchio in legno della madia. La donna che non credeva ai suoi occhi, allora, in tutta fretta, iniziò a preparare dei piccoli pani con la pasta che non finiva mai, “cresceva” a dismisura nell’arca di legno.

Sì, il lievito madre, la madre di Gesù, che lo protegge. Si sparse subito la voce e tutte le donne del villaggio andarono a prendere una palla di pasta, e dal quel giorno nacque il lievito, l’uso, per fare crescere la matassa di pane, moltiplicarla senza fine, per sempre:” O Gesù Cristo mio sii ringraziato, che con il pane sei stato raccappato” raccontano nella Conca dell’Aquila, che così diffuse la leggenda fino all’Alto Aterno e nei villaggi che riuniscono tanti agglomerati appena fuori le mura dell’Aquila. E la leggenda, questa, tanto preziosa che riecheggia ancora nei paesi dell’area geografica, insieme a quel pane sacro, tanto, che se la portavano dietro, magari rievocando il miracolo del lievito, nel “viaggio”, verso il santuario di San Paolo a Lavarete sorto probabilmente su un tempio romano, un edificio religioso che conserva tracce dello stile romanico dell’antica diocesi di Amiterno, edificato proprio, li sulla riva sinistra del fiume Aterno, punto d’incontro penitenziale e crocevia di uno degli ultimi e forse più importanti pellegrinaggi devozionali della zona, abbandonato e quasi estinto dalla memoria collettiva. “Il viaggio” ha inizio dalla “Sacra Famiglia”, quindi, per proseguire dopo, dalla notte di Natale, con i pellegrini, in cammino, in occasione della ricorrenza della “Conversione di San Paolo” molti giorni più avanti, il 25 gennaio.

Questa data assumeva i contorni di una “prova devozionale”, annuale, nessuno poteva astenersi: ristabiliva l’equilibrio e la continuità con gli antenati e i loro antichi culti cristiani così fortemente legati al paesaggio agrario e alle sue tante storie di accadimenti prodigiosi, sensazionali, di guarigioni e offerte alla santità. Il grande fuoco veniva acceso, illuminava il luogo di culto, ardeva tutta la notte, indicava la meta alle compagnie che dai centri dell’Alto Aterno: Montereale, Cagnano e poi anche da Arischia, Forcella e tanti altri, fino all’immediata periferia dell’Aquila, lungo gli argini, per la “via del fiume”, l’unica conosciuta, giungevano nella chiesa di San Paolo la notte della vigilia del 24 gennaio. Si costruivano le torce con la corteccia delle piante di ciliegio e di quercia; poi sopra si metteva il grasso di pecora: servivano per illuminare la notte fino ai bagliori del fuoco di San Paolo così chiamato, talmente alto, che tutti potevano vedere tra la bruma della notte, e quando nevicava “ci aprivamo il sentiero con le pale di legno e il falò si vedeva da molto lontano – raccontano”. Dentro la chiesa, si apriva lo “schermo” di uno spettacolo inconsueto: addobbato l’interno, sulle pareti, completamente coperte di tavolette votive, ex voto, cuori argentati, vestiti e protesi, lavori ad uncinetto, stampelle appese alle mura e lasciate lì da chi era guarito da tempo immemorabile. L’oro e i preziosi ricoprivano invece la statua di San Paolo che veniva posta al centro della chiesa; intorno la gente si riuniva la notte nell’antico rito dell’incubazione con la chiesa illuminata dalle fiaccole: le persone si coricavano a terra in quel luogo sacro per “sognare” il santo e aver così guarigioni. E poi il fuoco e l’acqua.

” Leggevano il fuoco”, le compagnie dei pellegrini, che simboleggiava la luce, la conversione di San Paolo e traevano auspici dalla brace per il lavoro delle campagne; l’acqua veniva raccolta dalle vasche dei fabbri per raffreddare i ferri della forgia: una forma di protezione che arriva sì alla religione cristiana, ma ha il suo inizio nei culti agrari dell’antica Roma (Varrone, Columella). Infine, una leggenda mitica della vigilia di San Paolo narra che sopra le case di Barete passassero i “Ndrondri”, uomini alati per metà con le sembianze di bestia satanica, che spumeggiavano e lanciavano lampi di fuoco. Avevano legati ai piedi catene e campanacci. I “Ndrondri” vigilavano l’inverno, dal tramonto, ma non potevano toccare il suolo, la terra, resa sacra, protetta con il fuoco e l’acqua, inviolabile per loro; loro, i “Ndrondri”, la tentazione del demonio per le anime perse, incutevano terrore, padroni della notte, controllavano il paesaggio in quel caleidoscopio di significati arcaici, mitici e leggendari, ma soprattutto puri e originali nei racconti di queste contrade mentre, sullo sfondo, luccicanti, restavano i bagliori nella notte del fiume Aterno, con la sua memoria, le sue molecole d’acqua…i

Le immagini: i borghi della Conca aquilana

Nota. I farisei, nella leggenda della tradizione orale di Natale, sono tuttavia un gruppo politico della Giudea che va dal II sec. A.c. al 70 D.c.