Il maligno irriducibile scacciato dalla città dell’Aquila.
mercoledì 27 novembre 2013 05:29

di Vincenzo Battista

A L’Aquila nel XVI secolo fu processato un asino sacrilego che, invasato dal demonio, aveva profanato un’immagine di Gesù afferrandola con i denti, sbattendola, e imbrattondola di bava. Fu processato prima, condannato e arso vivo poi, davanti al chiostro degli Agostiniani, sempre a L’Aquila.

Nel 1786, a Pacentro, fu istituito un processo a locustre e bruchiche arrecavano danni alle “canape, al grano turco, alle ortaglie, minacciando altresì di rovinare i seminati di grano e le vigne” della campagna che si apre nella Conca Peligna.

A Roccaraso, Pratola Peligna, Sulmona e Pescocostanzo, si precedette senza pietà contro i galli stregoni “che fanno l’uovo dal quale deve nascere il serpente a tre teste“.

A Barrea, verso la fine del XVIII secolo, si ingiungeva a grilli e pulci dei piselli, con bandi (ordini scritti) dell’autorità municipale, di liberare le colture.

Questi avvenimenti, che oggi possono sembrare solo l’espressione bizzarra, estrema, di una visione del mondo rurale allegorica e romanzata, sono stati invece conseguenza coerente di unaconcezione magico-religiosa della realtà che dichiarava la presenza del “maligno” in tutte le sue forme di manifestazione, in particolare negli animali, nella vita quotidiana delle comunità agro-pastorali. A questo si aggiunge l’inclinazione al magico, e “l’inspiegabile“, di quello che accadeva in natura, una scorciatoia che si percorreva per non voler capire che cosa fosse razionalmente accaduto al campo di granturco. Le successive scene, vedevano, quindi, entrare in campo l’irriducibile maligno, sotto mentite spoglie, da giudicare e condannare. Creatura, il diavolo, proiezione, estremizzazione, delle nostre angosce.

Con la Bolla di Innocenzo III (1482), si spezzò un equilibrio che aveva permesso a certe pratiche pagane di convivere con la progressiva espansione del Cristianesimo in Occidente, ma con scarsi risultati. Se la magia, che dà luogo a queste manifestazioni sul territorio, può convivere con la religione in vari contesti geografici, significa che è l’alternativa alla religione e la comunità, comunque, va liberata dalla presenza del maligno attraverso l’abiura (rinuncia sotto giuramento scritto) e la morte con il fuoco (come per l’asino), elemento catartico, purificatore per eccellenza.

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La casa di “Fetò” è stata costruita con i soldi del diavolo. Il racconto si apre, svela le conflittualità dell’uomo con le realtà storiche e naturali. Attraversano la storia, trattenute e filtrate dalla tradizione orale, dalla favolistica che le ha trasportate, da un momento di cui non conosciamo più le tracce originali, nella narrazione.

La casa del diavolo, un palazzo, dove sono stati consumati conflitti sociali, dispute feroci tutte interne al gruppo sociale. Proiezione mitica, il palazzo è divenuto domicilio del diavolo, della sua primitiva e mitica perversione, male storico ed etico, chiamato, mutuato, in un racconto popolare che rivela le sue paure ancestrali.

C’era una famiglia numerosa con molti figli e uno di questi, che aveva il soprannome di Fetò, voleva andare a “garzone”, accudire gli animali. Un giorno incontrò un signore che lo chiamò a lavorare come desiderava. Alla richiesta di quanto lo pagasse, l’uomo rispose che gli avrebbe dato tutto quello che chiedeva.

Andarono i due prima in una casa di lusso e poi in una stalla dove c’erano alcune mule. Lì stabilirono il contratto. Fetò accudiva le mule, avrebbe avuto un paio di scarpe, ma solo quando queste si fossero consumate poteva tornare alla famiglia. Come pagamento, aveva a disposizione un mucchio di soldi riuniti in un cumulo e Fetò poteva prenderne a piacimento, ma solo al termine del contratto. Alla fine della conversazione il signore gli disse che doveva pulire per bene le mule, ma per nessuna ragione, sottolineò, doveva togliere la sella.

Per tutto il giorno Fetò ripensò a quella disposizione, anomala, in quanto nelle stalle tutti sanno che gli animali sono liberi dalle selle e finimenti vari. Mentre iniziò il lavoro di pulizia, sentì una voce che diceva: “Come ci carichi forte quando andiamo in montagna“. Era una mula che parlava. Fetò ripensò al divieto di togliere la sella, ma tuttavia lo fece e la mula si trasformò in una donna: era la sua commare. Gli disse subito che quel luogo era l’inferno e il signore il demonio. “Sei capitato a fare il garzone al diavolo” e aggiunse “da qui non puoi più uscire“. Fetò piangeva e diceva che poteva andare via solo quando le scarpe si fossero consumate. “Quelle – continuò la commare – sono scarpe di ferro e si consumano solo con l’urina delle mule“. Così Fetò e la commare si misero d’accordo per le scarpe e cosa fare in seguito, ma una precauzione gli fu suggerita: non doveva prendere e toccare con le mani i soldi. Dopo alcune settimane Fetò tornò dal signore a chiedergli di riportarlo a casa perchè il lavoro lo aveva fatto e le scarpe si erano consumate, ma quando furono davanti al mucchio di soldi, Fetò si rifiutò di prenderli e così toccò al signore metterli in un sacchetto. Mentre Fetò se ne andava, il signore lo rincorse, lo prese per un orecchio e gli disse: “Come ti hanno indirizzato bene…” e glielo portò via, non potendo portare con se tutto il suo corpo. Fetò tornò a casa senza orecchio e raccontò l’accaduto alla famiglia. Con quei soldi che gli aveva dato il signore si costruì un edificio che fu chiamato “la casa del diavolo” che ancora oggi si può vedere.

 

Fotografie di Vincenzo Battista