Testo e fotografia Vincenzo Battista.
Un pescatore – poeta di Rodi Garganico, mi indica il ”trabucco” nello spigolo più a settentrione della costa frastagliata – potrebbe essere questo l’incipit di un romanzo – oltre a segnalarmi che molti qui si chiamano Celestino, Celeste e Celestina ( indovinate come lui si chiami! ). E in onore appunto del Papa Celestino V ritiene che lo stesso “trabucco”, sventrato, abbattuto dalle mareggiate, è un po’ come il naufragio dello stesso Celestino V, esule su una imbarcazione poiché perseguitato e braccato, salpato dalla riva con i suoi seguaci per provare a raggiungere le sponde della Grecia , fuggitivo e bandito, ma fu poi rigettato sul litorale meridionale del Gargano da una tempesta, secondo la tradizione orale, per proseguire via terra in direzione di Peschici e Vieste.E’ il mese di maggio del 1295. In una grotta , che prenderà il nome “a grott u papa”, punta di Calalunga , con una vegetazione di macchia mediterranea ancora oggi impervia e inaccessibile, Celestino visse uno spazio temporale con un enorme fardello di pensieri e stati d’animo, dopo la rinuncia al papato , e fino alla sua cattura degli emissari inviati da Bonifacio VIII che lo cercano, hanno battuto su e giù la costa del Gargano. La preziosità e l’unicità di papa Celestino V è tutta nel suo spirito, non può e non deve essere libero secondo la Chiesa che proverà a imprigionare il suo stesso spirito…Venuto dal silenzio delle spelonche dell’Appennino Centrale, vestito di stracci, compenetrato nella natura che lui rende metafisica, poiché la coscienza sovrasta la persona come in San Francesco d’Assisi , oppure negli echi di Giovacchino da Fiore: l’inconciliabilità della santità con il potere, postulato di un cristianesimo demitizzato. Celestino V, un uomo giunto dal basso, tanto rapidamente voluto al Soglio pontificio, è tanto rapidamente un “ricercato” da rinchiudere in un mastio, ovvero due discrimini, opposti, ma che si tengono insieme, serrano l’epica di un uomo solo e il suo destino giunto fino a noi. Bonifacio VIII, subentratogli, invece, per capirne il profilo, è sufficiente vedere le vesti liturgiche da lui indossate, ( opus ciprense), il pallio della sovranità teocratica di Papa Caetani decorato di grifoni con artigli e il becco aperto pronto a colpire, aquile bicipiti dentro ruote con l’intento di ghermire: il messaggio aggressivo, violento, di “un’altra Chiesa” nei simboli iconografici della pianeta che plasticamente indossava, rappresentano la forza d’urto del suo papato. Nel Museo dell’Opera di Firenze la statua di Bonifacio VIII di Arnolfo di Cambio, fine Trecento. Imponente in una geometria cuspidale, gotica verticale, pienezza dei poteri del pontefice, accentuata nella visione dal basso in alto come una cattedrale medioevale. La sacralità del corpo del papa. Così vuole Bonifacio VIII, l’eternità sua e della Chiesa, l’incarnato, il potere temporale, la ricca veste pontificale, e il pallio della sovranità teocratica di Papa Caetani, appunto. Braccato e incarcerato, invece, Celestino V, buia la cella in una torre, la sua coscienza intollerante al compromesso, il potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso. Adesso è Ignazio Silone che narra la versione scenica di “L’Avventura d’un povero cristiano” che apparve nel marzo del 1968. Il “Sinedrio”della condanna di Celestino V è lo stesso, emotivamente, che vive Ignazio Silone esule nel mare tempestoso dei compromessi in cui non sa nuotare, trasfigurato ( e adesso si provi a pensare in quale personaggio non dichiarato del romanzo storico) nel testo letterario senza tempo, ma ramingo con il pensiero senza mete: le stagioni dell’uomo perdente, senza frontiere e steccati, è nell’utopia che, infine, possiamo rivelare, entrambi, li unisce… e nell’altissimo prezzo dell’anima senza tempo.





































