Testo di Vincenzo Battista.
Il re aveva inviato le sue milizie giù nel borgo per saccheggiare le case. Doveva scovare prima, predare infine. Le guardie erano entrate nelle cucine a requisire la pasta cucinata nei camini o poggiata nelle dispense poiché era cibo per loro,mentre gli animali nelle stalle cucinati per la gran corte del re. Nelle cantine, però, si erano fermati, quella roba davanti ai loro occhi non interessava al re, quella “roba” da contadini pezzenti, – dissero le guardie – non era il cibo che un re potesse mangiare, e nemmeno noi – aggiunsero -. Insomma che cosa videro: stipati sulle mensole in legno tenute da corde che pendevano dal soffitto c’erano i fagioli, ceci, lenticchie, cicerchie, fave, piselli, e poi peperoni, bietola, lattuga, carote, verza, cavolfiori, spinaci, indivia, carciofi e zucchine. E poi gli aromi, le piante aromatiche e officinali: finocchio selvatico, borragine, prezzemolo, sedano, maggiorana, salvia, timo e basilico, insieme ad aglio, cipolla, sale, pepe, noce moscata e peperoncino. E, su un’altra tavola, pezzi di prosciutto duri e affumicati, cotenne, osso di prosciutto prossimo al rancido, e fette di lonza quasi stantie. – Che disgusto gli avanzi della dispensa – dissero le guardie con disprezzo, – nemmeno gli animali avrebbero mai mangiato quei resti del maiale e della terra. Le milizie, infine, sequestrato quello che gli era stato ordinato, tornarono compiaciuti al re per il lavoro che avevano svolto prossimi alla ricompensa. La giornata trascorse così, ma fu a notte fonda che il re fu preso da un soprassalto, si alzò di scatto dal nobile letto ed elegante baldacchino in legno attratto da un odore particolare, un profumo di cucina come mai si era sentito, un aroma quasi da incantesimo – sì forse in dormiveglia era un incantesimo – ma che si fece più intenso quando il re si sporse dalla grande finestra della torre e guardò il borgo sottostante. Quell’odore quasi dionisiaco usciva da decine e decine di camini del borgo e come una grande nuvola di gradevole fragore aveva invaso le case e le vie. Il re nemmeno si vestì, con il lungo camicione scese rapidamente le rue del paese tenendo la corona con una mano che la reggeva sulla testa e con l’altra lo scettro. E con questo iniziò a battere di impeto sulle porte delle case: prima una, poi un’altra e un’altra ancora poiché voleva entrare e capire cosa stesse accadendo, ancora un’altra e tante altre ancora ma restarono per lui sbarrate. La corona gli cadde, lo scettro rotolò via sulla strada cordonata e non se ne seppe più nulla, mentre lui, esausto, sedette sui gradini, solo nella sua solitudine di regnante affranto, e sconsolato poiché poteva sentire soltanto l’odore (ancora oggi si cerca un aggettivo per identificarlo, quello strabiliante odore…) ma infine era quello delle semplici “Virtù” così chiamate (l’unico sostantivo femminile rivolto sì al bene come sappiamo, ma anche nel cibo, assume il valore augurale di buon auspicio). Il cibo del calendario contadino sono in definitiva le “Virtù”, cibo del borgo che le famiglie stavano cucinando come vuole la tradizione, a notte fonda del 30 aprile. Le “Virtù”, il pasto unico dei campi, povero del 1° maggio, chiamato da queste parti dell’aquilano “La Costa di maggio”: salirla la costa per la “società delle attese” del passato, aspettare i nuovi prodotti dell’orto nelle alte quote del paesaggio e delle tardive semine primaverili da questa parte del Gran Sasso: è dura la costa, lo sanno bene le donne. Si cucinava quel poco che restava dell’inverno trascorso tra povertà e dignità, senza mai chiedere a nessuno, raccontano. Nemmeno al re… di cui abbiamo perso le tracce!
Le immagini della preparazione delle “Virtù” sono state fornite dallo chef aquilano Marco Brochella.