Settembre: mese dell’Identità e dell’Essenza – Seconda puntata.

giovedì 27 settembre 2012 06:27

di Vincenzo Battista

La sfida è stata sempre quella, da tempo immemorabile: l’apertura della terra nel primitivo scopo dell’uomo, basilare nella sua “antichità”, che si portava dietro: rompere il suolo, rovesciare le zolle, rivoltare la terra e tracciare il primo solco, nel mese di settembre con l’aratro a vomere, un tempo; arare il terreno, modellare il paesaggio, adattarlo, renderlo a semina equivale alla stessa azione, secondo Plinio il Vecchio (Naturalis historia), teorizzata nel “versus” (composizione poetica), che comparato al solco, designa la linea, il tracciato, ma di scrittura e di poesia che fatica sì a trovare il suo senso nella spazio e nel tempo della letteratura, ma poi tutto è più chiaro, lucente, come nei lavori agricoli.

Il solco è stato segnato, indicato, costruito, e intorno a questo prende forma il campo, il nuovo territorio “pettinato” dall’uomo, l’aspetto di un luogo fertile, oppure, come afferma Plinio, diviene scrittura, narrazione, esposizione, racconto di una storia che si fa immagine per i lettori.

Ma il solco dritto di settembre era anche devozione, una consuetudine “religiosa”, solco votivo che dava un’indicazione sull’andamento dell’annata agraria: le sue caratteristiche preconizzatrici, i suoi rischi in relazione alle fasi lunari guardate sempre con meraviglia e trepidazione per avere risposte. . .

E’ settembre, quindi, mese della memoria, del ringraziamento e del buon auspicio per la terra che torna a riposare, ma prima di tutto il rito, l’ultimo prima della sosta invernale, affidato, nella notte dai sacerdoti-contadini.

Ad Antrosano, frazione di Avezzano, nella seconda metà di settembre, gruppi di braccianti, che rappresentavano vicoli e zone del paese, partecipavano con mansioni diverse al cerimoniale del solco, si muovevano alla luce di lanterne a petrolio, durante la notte, e davano vita al codice che doveva svelare un rito antichissimo, arcaico (il più antico aratro a trazione risale al IV sec. a.C. in un sigillo reale rinvenuto in una tomba mesopotamica di Ur), mentre la prima descrizione dell’aratro della letteratura occidentale è ancora proposta da Plinio il Vecchio (71 – 75 d.C.), sopravvissuto nei gesti di chi guidava l’aratro, oppure nelle mosse delle redini della coppia di buoi; nelle movenze di chi dava le “mire” o viceversa controllava la linea del solco dietro le spalle e correggeva le imperfezioni.

Le compagnie si muovevano nella notte del Fucino, controllati da uomini a cavallo per vigilare la contesa e seguire il tracciato del solco e assegnare alla fine della prova il palio: foraggi per animali e derrate alimentari per la famiglia dei contadini.

La gara di abilità lungo la sterminata pianura, attraverso fossi, sterpaglie, colline e ostacoli di ogni genere, dal monte Salviano verso l’abitato di Avezzano aveva avuto il suo esito, il suo risultato, quello di spezzare la “materia originaria”, la terra feconda, metterla in relazione al cielo attraverso il vomere che ingravida il suolo, il solco: atto sacro per i romani che lo consideravano come il cardo che prendeva la stessa direzione dell’asse celeste, mentre il decumano seguiva il corso del sole. Cardo e decumano, entrambi, elementi costitutivi della vita urbana della città romana, dominio, traccianti inalienabili di un disegno trascendente, incontrastato, anche di quelle contrade rurali del Fucino che inconsapevolmente ne conservano la memoria.

(Sabato 29 settembre la terza e ultima puntata: La Partenza e le Quarant’ore)

 

Fotografie di Vincenzo Battista