Testo e fotografia Vincenzo Battista
.Il silenzio, nell’intercapedine del pensiero, si pone come spazio mentale, è la condizione primitiva dell’ascolto e, pertanto, non vediamo altro che questo aspetto dello spirito che si diffonde e aleggia nel luogo dove ci troviamo, prima di scendere con le corde nella ripida forra, complicata e ostile per i tratti verticali delle rocce a strapiombo sull’abitato di Fossa. Discendiamo dalla sommità dell’orlo di Monte Circolo (pianura Sud -Ovest dell’Aquila), un anfiteatro carsico sigillato da eventi e permanenze storiche che assegnano l’area geografica a emergenza storico – ambientali, patrimonio per numerose vicende e accadimenti che caratterizzano la stessa città di Aquila. Tutta questa enorme cassa acustica di Monte Circolo è rotta dal gracchiare dei corvi con i loro simili, e il verso muta a seconda di quello che si vuole comunicare o esprimere. Nella autenticità del silenzio, nella sua quotidianità, un uomo avrà sicuramente assistito a quel volo ininterrotto dei corvi, un uomo chiamato Beato Placido da Roio (cistercense, eremita in una cavità su Monte Corno: da lì i miracoli a lui attribuiti, la fama, e la vita che combatte il male degli uomini, secondo la profezia medioevale di Giovacchino da Fiore sull’apocalisse imminente). Scelse poi di vivere in un’altra grotta per 12 anni “nell’imperfezione” concettuale: un valore ( in filosofia, l’essere umano possiede nell’imperfezione la sua straordinaria pienezza), nei primi anni del XIII secolo poiché è già definito un santo in vita per i pellegrinaggi e i miracoli alle pendici della grotta, una grotta impervia, quindi, che stiamo raggiungendo sulla parete di Monte Circolo che va oltre ogni considerazione sull’eremitismo estremo e senza ritorno. Solitudine e autenticità del silenzio senza mediazioni, oltre le pene trascurate del corpo umano a cui viene sottoposto Placido per scalare continuamente Monte Circolo – “la sua protezione mentale” – un ossimoro che non è altro un “patto”, il suo “patto”, tra memoria del passato e proiezione nel futuro, certo del “futuro…” giunto fino a noi. L’habitat. Ha scelto un habitat inaccessibile, autoreferenziale, una cavità inospitale che disegna il sacrificio che nessuno gli ha affidato, ma scelto in perfetta autonomia, tanto che si cibava di erbe medicinali, foglie e radici, poi penitenze con il cilicio, genuflessioni – così le fonti tradotte dello storico Antinori (tutto questo lo abbiamo visto anche in Pietro da Morrone, Celestino V, nella sua spelonca: il rigore dell’ascesi!). Ma, soprattutto, è qui il punto di caduta nella ricerca del “silenzio”: dalle pendici di Monte Circolo, il Beato Placido risaliva lo stretto canalino verticale e angusto per lo scivolamento delle pietre e detriti, oggi quel tracciato è reso pressoché impraticabile dalla vegetazione, tra le falesie che si chiudono e quasi si uniscono nello stretto “camino” verticale. Placido ancorava le funi di canapa sulle rocce per poi, infine, raggiungere la grotta nel racconto autobiografico, metastorico della propria esperienza interiore. Adesso l’enorme cavità è quasi riempita, nel suo fondale, dalle scariche di pietrisco e dagli smottamenti che scendono dalla parete superiore della cavea , l’ingresso, per poi creare un labbro di pietrisco all’imbocco della stessa grotta: lì c’è una grande croce in legno su uno spettacolo visivo inconsueto e inusuale, che si apre a ventaglio sulla Conca aquilana. L’imperfezione dello spirito…
Con noi, Gianfranco Francazio.





















































