Il “trappeto” di San Benedetto in Perillis.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

” Per spaccare la pietra si usava un piccolo recipiente con un forellino, ci mettevano dentro l’acqua, la mettevano sopra la pietra e questa gocciolava, in continuazione. Ma prima facevano un buco dove sotto gocciolava e ci mettevano un pezzo di legno. Nel periodo invernale, la notte, si abbassava la temperatura, l’acqua gocciolava sul pezzo di legno nel foro e spaccava la pietra… “. Scegliete voi se si può trattare di una narrazione leggendaria, prologo di una fiaba o del mito che racconta magari l’ingegno di qualcuno che abitava grotte e cavità, in epoche immemorabili, disperse nella fantasia e nella magia di un tempo senza tempo, meraviglioso e impressionante per le capacità dei suoi custodi, oppure si tratta di un’affabulazione concreta, molto concreta, che intorno a noi racconta il miracolo della roccia che si sfalda, si apre, per stupire, noi. Ma partiamo da qui. “Gemito, di ogni vena scorrer mi sento, il sangue, ombre, e figlie e canto mi ombra di terrore, e per mie pene veco che fui crudele da un’anima fedele da un innocente cor ” è il cantico struggente, misterioso, della “grotta” (viene da lì), straziante, di una donna; un giuramento, la formula magica pensata e ricamata a punto e croce su un fazzoletto per scongiurare l’infedeltà dell’amato: “voce”, prosecuzione della fiaba, sul filo della fantasia, o piuttosto realtà inconfessabile dell’ambientazione di una grotta dove è nata, lo spazio – grotta, modello primitivo di una società locale che l’ha utilizzata, forma sociale e contenitore di storie, tanto da diventare un epistolario collettivo: così appare il racconto del paese, ma sempre in bilico, dove la realtà, con la sua povertà, superava la fantasia così come noi la intendiamo. San Benedetto in Perillis è questo; sotto, una collina gruviera con un sistema di canalizzazioni, strutturato nel ventre del paese, la risorsa nel suo luogo della socializzazione: “rifugio” nel quale si organizzava la vita collettiva della comunità, trama dei rapporti interpersonali per un lungo tempo, questo sì come una favola che continua a raccontarsi. Un paese scavato nel calcare, per secoli e secoli, insediatosi oltre le regole urbanistiche in una gestione del proprio tempo antropologico divenuto un’organizzazione sociale: la grotta appunto, testimonianza, scavata e abitata da uomini e animali. In una di queste il frantoio (trappeto) per l’olio. ” Mi ricordo nel 1945 – raccontava Pasquale Gualtieri – per una siccità spaventosa non si rifece l’olio di oliva, si faceva l’olio con le noci di mandorla. L’olio delle noci di mandorla si usa in farmacia e poi se ne fa poco. La mandorla se è dolce è buona, se è amara l’olio è buono ugualmente, tutto il “veleno” che contiene la mandorla amara non va nell’olio ma rimane alla pasta di “sansa”. Il frantoio di San Benedetto funzionava nei mesi di dicembre e gennaio. Serviva solo il paese e le tue terre. ” La trave del frantoio – continua il racconto – che è di quercia, è stata trasportata all’Aia Martone, con tanti pezzi di legno rotondi, rulletti su cui ruotava e quindi veniva spostata. Il muro del frantoio è stato rotto per far entrare la trave, e la pietra all’interno è stata spaccata perché il locale bisognava allargarlo e solo togliendo la pietra si poteva fare spazio…” con l’acqua stillata sulla roccia, che gocciolava, lentamente, come la storia del luogo di San Benedetto in Perillis: toponimo che indica la derivazione da inproeliis, “ nelle prove”, o in periclis, “ nei pericoli” che diventa, nel parlato: in perillis, il borgo dalle prove difficili e di pericolo, insicuro, pertanto da conservare, scritto infine nella pietra.

L’edificio e la grotta a San Benedetto in Perillis del frantoio, il “trappeto” antico, costituito da una trave orizzontale (anno 1815) per schiacciare la pasta di olive e distillare olio.