Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Il suono dell’armonica nella valle del Paradiso (ma era tutto meno che di “leggiadra letizia”, per loro, quel Paradiso…). E’ l’ambito geografico tra i Coppi di San Franco, Cresta di Rotigliano e la Piana dei Cavallari a circa 1750 m. s.l.m., estreme propaggini settentrionali-occidentali del massiccio del Gran Sasso, lungo la dorsale occidentale. Il sito dove proviamo ad immaginare quel suono di armonica che rompe il silenzio, la sera, al tramonto della valle così serrata dai rilievi che la cingono, cioè un antico deposito morenico millenario di un ghiacciaio e il suo scivolamento fino all’ultima macchia del bosco del Chiarino, diveniva, un tempo, per i pastori stanziali, come per magia, una sorta di cassa acustica. Configurata la valle, geologicamente com’è, in un anfiteatro carsico sul fianco nord – est di Monte San Franco nei brecciai, lunare dalle forme coniche scivolate dalla sommità, rotolate e spinte poi dalla neve disciolta giù nella depressione: una miniera per la costruzione di capanne – rifugio in pietra. Un brecciaio, nel suo lento dilavamento, con un fronte ampio, si è fermato a ridosso di un recinto per il gregge, circolare, di pietre a secco, che non è stato ingoiato: questo forse è il simbolo della lotta perenne con gli elementi della natura, implacabili. Vegetazione assente, luogo inospitale in apparenza, metafisica pertanto l’area geografica nella sua purezza del nulla, oggi, dove persino le sorgenti sono scomparse e le vipere sono andate via. La stagione e le temperature alte fuori controllo hanno estinto persino la genziana, la pianta officinale di montagna. Un paesaggio arso e crudo, sordo all’equilibrio dell’ecosistema, divenuto un fossile, come se lì ci fosse una luce solare zenitale perpetua, che lo illumini.

Ma! Sì, se riavvolgiamo il nastro, spostiamo indietro le lancette del tempo, è la zona definita così il “villaggio di uomini” che lo hanno costruito e spazialmente organizzato nel lavoro, da giugno alla fine di settembre per la pastorizia, nei gruppi uniti da vincoli di parentela (costituivano una società dalle tre alla quattro persone con i turni in montagna, provenivano da Arischia) e animali circa 300 – 350 protetti, la sera, dentro i “mandroni”. Le capanne a secco cuspidali, coniche coperte di travi e fronde tagliati dal bosco del Chiarino, rifugio infine dei pastori e rimessa attrezzi per la mungitura. I recinti di massi sovrapposti, sbarramenti in pietra, percorsi segnati e orientati ( un lavoro immane ) per le calamità atmosferiche improvvise del pascolo nella valle del Paradiso, alias una dannazione, ma non c’era altro lì che l’allevamento in altura, transumante, un ossimoro in quell’inferno di isolamento, di autosussistenza nel lavoro con il bestiame in una landa desertica che trasmette ancora flebili segnali, adesso, nei reperti murari un tempo della famiglia Cappelli destinataria dell’area. Qui le tracce del paesaggio in questa organizzazione di rifugi pastorali appenninici estremi in quota, ricavati e armati intorno agli enormi blocchi calcari affioranti, riunite più capanne anche in circolo tra loro, come nel Val Maone, nello stesso principio costruttivo. Sopra i muri in pietra per le mandrie e soprattutto per gli agnelli (i più vulnerabili), appena nati, venivano infissi i “graticci”, pali e fronde di faggi intrecciati per la protezione dagli attacchi dei lupi nel corridoio faunistico dei predatori di Monte San Franco. Le greggi nelle tempeste d’acqua trovavano un varco nel bosco del Chiarino: la protezione. Il suono, quel suono dell’armonica era di Giuseppe Capannolo, scomparso all’età di 100 anni nel 2022 (nelle immagini su una pietra, fotografati, gli oggetti a lui appartenuti nella capanna in pietra dove ha vissuto, e il cibo essenziale dei pastori durante il pascolo; l’acqua invece dentro piccoli botti in legno dai due ai cinque litri, “le cupelle”). Un personaggio biblico per la conoscenza della cosmologia dei pastori, Giuseppe, una sorta di colonnello Aureliano Buendìa nel romanzo “Cent’anni di solitudine” di Garcia Márquez. Riuniva i pastori che si spostavano la sera dai loro rifugi in pietra, preparava la pasta con gli olaci per tutti nel proprio tholos sul fondovalle del “Paradiso”, recitava strofe sue in ottava rima, narrava l’epica dell’Orlando Furioso, leggeva le sentenze decennali emanate dalla Corte sulla battaglia del Chiarino del marchese Cappelli e le genti di Arischia, medicava gli animali con le erbe officinali, guardava le stelle e componeva, fino a tarda notte, quando il falò non dava più luce. E poi la notte del “Paradiso”.  E l’indomani, gli stazzi in pietra, le mura perimetrali un principio sincronico che si muovevano sulle curve di livello mantenendo le quote altimetriche per maggior protezione, una costellazione, come se qualcosa di onirico della calotta celeste si fosse poggiata al suolo, così parlava Giuseppe Capannolo. Una geometria quasi astrale il villaggio delle capanne comunicanti e a vista, che rispondevano a un principio associativo dei pastori e di mutuo bisogno, e nella visione dall’alto, della valle del Paradiso”, una costellazione luccicante appunto proviamo a pensare, di distinti ma aggregativi rifugi illuminati dal fuoco che accendevano i pastori ognuno all’ingresso delle capanne in pietra. I frammenti raccolti si trasformano in storie di una narrazione che non ha scrittura ma memoria, un cono d’ombra è illuminato, indizi di un mondo apparentemente superfluo viene però percepito, e il suo flusso perpetuo delle cose che riemerge, con tutti i suoi significati, in questo lembo sconosciuto del Gran Sasso d’Italia, inaspettato. Non sapremo mai se questa porzione della montagna possa associarsi ad una intitolazione nel nome di Giuseppe Capannolo, insieme a quella del “Paradiso”, ma sappiamo che sarebbe un evento inatteso, venuto dal basso, come non è mai accaduto, da affiancare perché no alle lobby e a quelle enclave della montagna, spesso mediatiche, che indicano appunto i nuovi toponimi del paesaggio appenninico.

Con noi nella valle del Paradiso Abramo Colageo.