Testo e fotografia Vincenzo Battista.

In volo sulla Basilica di Collemaggio con l’elicottero pilotato da Davide Zecca, aeroporto dei Parchi – L’ Aquila.

Il mistero iconico e simbolico della pietra leggendaria, e lo vedremo, plastica rappresentazione di una mentalità narrativa e carica di mistero, lo scopriremo, quando il mulo, improvvisamente, si arrestò, non volle più proseguire e impresse le sue impronte sulla pietra, davanti alla Porta Santa di Collemaggio. Sul carico del basto portava, custodite e protette, da Ferentino, in una fuga rocambolesca, le reliquie di Celestino V, messe in sicurezza infine nel Colle di Maggio, dove era stato incoronato papa. E’ il febbraio 1327, dissidi e conflitti tra Ferentino e Anagni e la messa in sicurezza del prezioso carico, dopo un lungo viaggio in un domicilio sicuro e lontano dalle battaglie campali. La pietra – impronta, proviamo a pensare, la trascendenza della mitizzazione è, quindi, “iscritta” in una sorta di catapulta – così com’è la tradizione orale -, che si carica e termina la sua corsa con il suo messaggio subliminale, appunto, ma che non è ancora finito: la pietra può essere rintracciata e scoperta, tra il mito e la leggenda, sulle navate della Basilica di Collemaggio, infissa con le altre pietre ma diversa, giurano negli esili racconti popolari, alcuni, nella comunità di Ferentino. Il masso con l’impronta del mulo, analoga a quella della Madonna di Roio, è in quell’alchimia mistica, una profezia dell’immaginazione, una visione del mondo medioevale sul culto della pietra trasformata in simbolo religioso, che conserva e scrive la narrazione, e la custodisce (gli eremiti della Conca aquilana, e non solo, scavano il calcare della loro spelonca, riposano su letti di pietra, costruiscono manufatti, la segnano con i miracoli con l’uscita dell’acqua, compiono profezie sulla stessa montagna – sacrario delle loro azioni). Il viaggio, quindi, come detto, la propiziazione, gli scopi della lustrazione, appartengono in particolare ai “pellegrini” di Ferentino: l’impronta è rivolta a essi stessi, segno identificativo, è già di per sé un’indulgenza, viatico per aver sfidato il “cammino”, il tempo del viaggio avventuroso e carico di responsabilità per il trasporto dei resti di un uomo come nessuno mai nella storia del papato. Il mulo si ferma davanti alla Porta Santa, il nastro del tempo si arresta, tutto è compreso adesso, dispiegato, un segno cifrato, un linguaggio universale, atteso nella purezza del messaggio, prima che si spalanchi la stessa Porta Santa, delle indulgenze, per tutti. Le reliquie di Celestino V, così come era nella pratica dell’ostensione il 29 agosto, su un modello medioevale della preservazione, venivano poi esposte e mostrate in quella antropologia religiosa, dall’alta valenza per i fedeli del popolo minore: l’indulgenza inarrivabile è lì, “scalabile” e non più acquistata nella economia della salvezza dai pochi eletti, ma con il suo significato, come detto antropologico, si spalma sulle compagini sociali appenniniche, e non solo, che il paesaggio del contado esprimeva nei dintorni di una data, il 1294, con l’incoronazione appunto di papa Celestino V nella Basilica di Colle di Maggio. Gli elementi nella scacchiera religione – paesaggio antropizzato – indulgenza ritmano lo spostamento e l’avvicinarsi del significato spirituale legato ai sacramenti della ricca e opulenta Chiesa cattolica a quello dell’essere umano spesso schiavo e vessato, senza distinzioni sociali: le reliquie mostrate davanti al pubblico sono di tutti e, pertanto, il “ Perdono” è cristallizzato in quell’azione (certo bisogna essere penitenti, consapevoli, confessati nell’Eucarestia), per esempio, nei pastori transumanti dopo il 29 agosto nel viaggio sui tratturi. Le reliquie così ci dicono ancora, nel loro lungo eco, della memoria di uomo vestito di stracci e improvvisamente Papa con la straordinaria ed epica Rinuncia, che sembrava estinta, ma che contestualizza la stessa memoria nella sintesi così come oggi noi la intendiamo: una morale universale inattaccabile anche da facebok, instragram ed altro, apre spazi di “visione” nella concretezza storica e geografica del proprio tempo.