La città dell’Aquila, Celestino V e le pietre del demonio.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

19 maggio, San Pietro Celestino. Questa data, che segna la morte di uno dei quattro compatroni della città dell’Aquila (San Massimo d’Aveia, San Bernardino da Siena, e Sant’Equizio), è anche la celebrazione di un mito geografico, raccontato attraverso fonti storiche, antiche storie e leggende popolari sopravvissute nel tempo. Di un luogo particolare si narra, in un ritagliato angolo di forre e canaloni della grande montagna, il “Monte della Calamita”, che attrae a sé, irresistibilmente, gente proveniente da tutte le parti del paesaggio, ma non dopo aver superato “la prova” di un sentiero aspro e a tratti faticoso che porta su, fino alla meta fantastica e poetica di una spelonca citata da un porporato nel medioevo, e poi da viaggiatori del Grand Tour, dai trattati geografici; sito del culto religioso e della fede che protegge la montagna; di avventure e romanzi, storie appunto, e tradizioni popolari; di peregrinazioni e favolose imprese che portano proprio qui tanto, che nel recente passato, impressionò Ignazio Silone alla vigilia del suo romanzo “ L’avventura di un povero cristiano”: pose il sito nella centralità della sua narrazione su Pietro dal Morrone. Un luogo, questo, dello spirito, della penitenza, sospeso tra terra e cielo e di un “potere” altro, dibattuto, ancora oggi enigmatico: l’eremo di Celestino V sul Morrone, nella Conca peligna. Per raccontarlo, questo tassello di un mondo arcaico che diventa leggenda, dalla fauna fantastica e dagli animali primitivi; dalla flora che ne faceva una specie di eden, per raccontarlo e rappresentarlo ci provò con la pittura anche un monaco celestino, Carlo Ruther (Danzica, 1630 – L’Aquila, 1703). Grandi quadri, esaltanti, vedutisti nel rapporto pittorico tra uomo e l’ambiente lussureggiante, che riconciliavano gli animali feroci dipinti accanto alle prede, ammansiti, piegati, nell’atto di sottomissione davanti a Pietro dal Morrone autorità suprema, riconosciuta, avanti con gli anni, vestito di solitudine e stracci, mentre nel cielo volteggiano uccelli metafisici di una filosofia esoterica e  occulta, il tutto nel rendere omaggio in primo luogo a quell’uomo taumaturgo che aveva potuto tanto, l’eremita Pietro, incarnazione di quell’eden ricomposto e propedeutico, della montagna, che diviene un’Arca, e proprio lì, il 19 maggio, quel giorno, improvvisamente, fiorisce tutt’intorno la montagna del Morrone con una vegetazione equatoriale come mai non se ne vedrà più, neppure nei giorni successivi. È il mito geografico, è la natura che vuole essere raccontata così dagli uomini, ne hanno bisogno, per sacralizzarla: diventa forza evocatrice di un’antica memoria spirituale, trascinata e tramandata, medioevale nella sua incontaminata essenza, che ben conoscono le popolazioni che vivono alle pendici della montagna. “L’eremo di Celestino V sorge su una rupe. Da questa si buttava la pietra – racconta la tradizione orale – per allontanare il male, il nemico. Più la pietra andava lontano, più questo nemico si allontanava”. Il nemico nella valle dell’Inferno è il demonio. “Come possa andare via questa pietra, così possa andare via il mio nemico nostro” – continuano. E ancora.” Noi custodi dell’eremo mettiamo monticelli di pietre, le prendiamo fuori con cinque o sei secchi. Le pietre sono piccole. Facciamo questi mucchi perché altrimenti la gente spacca i muri per prenderle e lanciarle giù: più lontano si lancia la pietra, più lontano si scaccia il demonio”, la tentazione nella sottostante valle dell’Inferno con le sue grotte nascoste dalla radura, centinaia di metri di parete a strapiombo, liscia, ingoia il precipizio, insieme ai sassi gettati, giù, dentro le forze occulte, le forze infernali che si sono date appuntamento in un luogo puro, frontiera del mito, della fede, e non poteva essere che così, per raccontare le sfide continue tra il bene e il male, tra la montagna sacra e le sue radici demoniache, celate, infestate dalle nostre paure e infine liberate dai nostri desideri….

Le immagini.

C. Bedeschini, San Pietro Celestino con in mano la città dell’Aquila, 1613 ca.

Particolari del Ruther, Pietro dal Morrone con gli animali ammansiti.

Pellegrinaggio all’eremo di Celestino V sul Morrone.

La pietra, che secondo la tradizione popolare è la tentazione, dal terrazzo dell’eremo di Celestino V sul Morrone viene scagliata lontano, nei dirupi della sottostante valle nell’Inferno. In una vasca del terrazzo sono raccolte le pietre, per i fedeli, per non farle staccare dai muri dell’eremo.