La città dell’Aquila. Le sfide dentro una storia secolare.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

E’ forse il salmo più inquietante disceso sulla città dolente, il Miserere, espressione sopra tutte le altre, il più implacabile, penitenziale, ma anche il più eloquente utilizzato nei suoi scritti da A. L. Antinori (1704 -1778) per provare a rappresentare il dolore pubblico e privato, lugubre e luttuoso, tonfo e agghiacciante che segna i destini, scandisce le pene solenni, drammatiche; la misericordia appunto dell’Ufficio delle tenebre, funebre, sopra le macerie fumanti, le urla di disperazione e di panico dei Quarti, le invocazioni di aiuto; sopra le torce accese che si rincorrono, e cercano, nella notte gelida; sopra montagne di pietre e calce, travi e corpi sepolti di una città, Aquila, che adesso abita lì sotto, attraversata in lungo e in largo “dagli  spettri e le squadre di nero e in atto di dare battaglia”: metafora della tradizione popolare del terremoto del 2 febbraio 1703 che cambiò per sempre i destini della gente dell’Aquila, produsse un’infinità di lutti come non mai, sconvolse i punti di riferimento spaziali della “Civitas Nova”, cancellò i siti architettonici: dalle case del popolo minore ai palazzi dell’aristocrazia, agli edifici di culto alle reliquie dei santi protettori il sisma smantellò, in definitiva, la mappatura della città – territorio medioevale e rinascimentale come non l’avremmo mai più potuta vedere. ” Fra gli effetti naturali – scrive appunto nella sua cronaca A. L. Antinori – si contarono i vapori puzzolenti esalati dalla terra, le acque cresciute nei pozzi, gli acquedotti sotterranei rotti in più parti. Seguì la terra a ondeggiare in modo quasi in bollimento per ventidue ore continue. Molti furono gli accidenti compassionevoli occorsi a’feriti e mal rifugiati. Girolamo Papareschi vecchio prete nonagenario stette tre giorni circondato da tutti i lati dalle rovine di casa sua, escavato vivo poco dopo morì. Giuseppe Pallotta e sua moglie scavati nel settimo giorno vivi, morirono poco dopo. Agostino Rosanzio restato sotto quattro canne di pietre, e travi per sei giorni e mezzo, ricevendo gli alimenti, per una fenditura da Giuseppe suo padre, iscavato alla fine non sopravvisse all’aria aperta che per tre giorni. Giulio Marchetti Novizio Domenicano era morto dopo due giorni senza essere potuto scavare. Un altro fanciullo ne visse quattro senza alimenti, ma scavato appena morì…”. Una città – rovina, da evacuare, da abbandonare, per ricostruirla altrove, spostarne il sito, forse per sconfiggere il destino che la voleva città sempre da ricostruire (1315, 1349, 1456,1461,1498,1646 gli anni del sisma); città, ” cultura” dei terremoti diventata così per l’intera collettività. Tutto sembrava perso, invece, la grande reazione del sentimento locale, dell’opinione pubblica, una spinta inaspettata come afferma il prof. Colapietra, un moto di orgoglio degli aquilani e la certezza di appartenenza ad una storia secolare tramandata, di sfide, impedì la delocalizzazione a favore di ” là dove era e come era”: una prova di forza nuova per Aquila, una prova di coraggio inusuale, per ripartire da quelle montagne di pietre, lasciandosi dietro 2500 morti su 6800 abitanti: 1/3 della popolazione; lasciandosi dietro il sisma più feroce della storia della città; lasciandosi dietro le identità distrutte: vessilli, cari, dei nostri antenati. E ancora oggi, i dieci anni dal sisma del 2009, non lavano  e non prosciugheranno il tempo passato che è adesso, sì, adesso, poiché quanti minuti, quanti istanti abbiamo dedicato in questi dieci anni ai caduti del sisma nei personali e intimi pensieri inconfessabili, ma che sono lì: se potessimo raccoglierli, se potessimo racchiuderli bypassando i corrotti e i corruttori del dopo sisma, faccendieri e procacciatori di affari, l’arbitrio della politica senza condivisione con i cittadini, i suggeritori e sensali, i comitati di affari e i mediatici inquietanti messaggi; se potessimo raccoglierli e consegnarli ai familiari delle vittime, che città questa, che città delle persone questa che sfilerà, ancora, per “cercare”, come un popolo in perenne marcia, il luogo che non c’è, “trovarlo” ma solo nel suo immaginario: il luogo della memoria collettiva, il luogo, il sito per rendere omaggio alle vittime del sisma, dopo 10 anni un’infinità, ma atteso, sdegnatamente atteso il memoriale, segno tangibile del ricordo collettivo degli aquilani e declinato, vilipeso nei principi di una società civile.

Le immagini, i simboli della città.

I dipinti della citta dell’Aquila nelle mani dei quattro protettori. Museo Munda – 99 Cannelle, L’Aquila.