Testo e fotografia Vincenzo Battista.

L’arte per immagini della diagnostica (magari non ce ne accorgeremo mai, presi come siamo dagli esami), è tuttavia “l’arte” della ricerca, poiché diviene linguaggio visuale, ossia l’imaging – esplorare le aree interne del corpo umano con tecnologie non invasive – che compendia aspetti macroscopici e microscopici della conformazione degli organi, e quindi l’immagine finale è quella che condiziona la conoscenza. Il “caos”, per usare un eufemismo, della natura all’interno del corpo umano, viene indagato e scrutato con accuratezza per esempio della sonda connessa all’ecografo che utilizza ultrasuoni: è una sorta di occhio umano che guarda all’interno del corpo, toglie quello che non interessa, si concentra infine sull’essenza del problema indagato in dati e quindi in immagini il più possibile fedeli alla realtà. Sarà poi compito del medico con la sua esperienza capire l’equilibrio di un organismo oppure essere in allarme per una dissonanza nello standard dell’immagine, soprattutto nei dettagli, poiché è come se ci si trovasse su un tavolo sgombro e pulito, dove non ci sono elementi superflui e fuorvianti, ma solo e soltanto “l’oggetto” d’interesse. A monte di tutto gioca un ruolo fondamentale l’apporto tecnologico, quello biomedicale. “Dall’arte” della scienza, di questo si tratta, della diagnostica contemporanea, appunto, “all’arte” della manipolazione dell’argilla che creava, sotto richiesta degli interessati, gli organi e gli apparati del corpo umano: la cultura dell’antica Roma, anch’essa diagnostica, comunque, unita allo spirito divinatorio che la persona ricercava, andava incontro alla divinità nel tempio pagano dove questa “viveva”, in attesa di ricevere risposte… La divinità procurava le aspettative dei malati, rassicurazione e protezione e forse la guarigione che poteva accadere: ma non lo sapremo mai se gli dei s’impietosivano! La tempistica: proviamo a pensarla, il sesso maschile per esempio (nelle immagini il corpo umano presenta anche altre patologie che, in argilla, assumono diverse forme dell’organismo anche dell’interno dello stesso corpo umano). La sua fertilità, quindi, è il sesso dell’uomo, da riconquistare, l’oggetto in argilla che ci “parla” e si racconta nella sua patologia di sterilità. Ma anche la donna e le forme dell’utero, dell’ovaio e l’apparto quindi riproduttivo. La creta veniva prima manipolata da un artigiano, ci si recava in una bottega, e l’impasto assumeva la forma che vediamo ancora oggi conservata in una teca di un museo archeologico, cotta al forno diveniva terracotta poiché non si frantumasse, e infine la consegna da parte dell’artigiano al richiedente, e la visita finale da parte di questo presso il santuario sacralizzato con l’oggetto ex voto per chiedere la grazia e invocare la fertilità. L’oggetto propiziava: suscepto, “secondo la promessa fatta” è una sorta di conquista dello “spazio”, vuoto, templare, che si riempie con un oggetto talmente personale come se fosse uscito dal proprio corpo e messo lì nell’estetica del dolore e della ricompensa in un mondo, quello romano, animistico che, con la natura dominava i sentimenti e le aspirazioni dei nostri antenati.