La montagna che ha dato nome al mito. La “Corsa degli Zingari” a Pacentro.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

 È appena trascorsa la manifestazione denominata “Corsa degli zingari”, il 5 settembre, a Pacentro. Resta il mito, per tutto l’anno… Vediamo. 862 metri il percorso, partono a 750 metri di quota, scendono un tragitto ripido di 322 m., poi il torrente Vella a 579 m., la quota più bassa e lo “Strippo” di fondovalle, idioma locale, un passaggio tra la macchia dei rovi e la vegetazione bassa arbustiva. Dallo “strippo”, dopo 220 m., alla chiesa settecentesca della Madonna di Loreto si risale a quota 680 m. e, sopra l’impianto religioso, il borgo di Pacentro che lo sovrasta. Il tempo impiegato: circa 5 minuti dal suono della campanella che, con le sue onde sonore tiepide, attraversa la valle e arriva a loro, “zingari” di Pacentro, così chiamati, erranti, apolidi, senza frontiere che in quel momento si gettano sul crinale dalla “Pietra Spaccata” di Colle Ardinghi ( lì si poggiò la Casa Santa di Loreto e con il peso aprì la massa calcarea, così la tradizione locale) che per la pendenza non si riescono a vedere i piedi nudi, poiché di questo si tratta, scalzi a contatto diretto con la terra madre, con la montagna consolatrice dei mali: da questo contesto scaturisce la “Corsa degli “zingari” dalla montagna, appunto, di Colle Ardinghi, prospicente e frontale come una sorta di totem il borgo di Pacentro, allungato e disteso con il suo curvilineo orografico, che aspetta il vincitore… Il percorso è stato messo sotto tiro, il declivio della montagna prima e il sentiero poi nei giorni precedenti la gara è stato provato e monitorato e persino sono state contato le pietre… Scendono correndo, quindi, a piedi nudi. E dopo che la montagna si è nutrita del sangue degli zingari lungo le sue brecciare e le incisioni calcaree, è la chiesa l’arrivo e consacrazione dei ragazzi – zingari, il luogo epico di una narrazione caravaggesca dei corpi in chiaroscuro nelle ombre allungate della chiesa, in quelle penombre, esposti e offerti alla devozione della Madonna di Loreto, ex voto per grazia ricevuta, che si avvitano e avvinghiano in un inferno dantesco di corpi, a terra, dopo il martirio con i talloni e le piante dei piedi bucate e lacere che perdono sangue e, in lunghe strisce trascinate sul pavimento, “consacrano” la laicità della navata di una Chiesa che non vorrebbe mai veder quello che è sotto gli occhi di tutti: il luogo temporale dei lamenti e delle imprecazioni per le ferite inferte in questa prova, oggetto di culto però, ancestrale, culto – altro, un mito – altro che non vuole e non cerca se non dentro il proprio sé, in quei giovani, lo spirito in quell’attimo, solo quell’attimo, il bene e il male arrivano a sfiorarsi ma non si toccato, nella netta opposizione dei due campi, in questo dinamico sforzo della corsa: ritrovare appunto lo spirito, quando suona la campana, e molti restano inchiodati, vinti, abbandonano, e altri si gettano nel dirupo, si offrono agli “dei…”, nel sacrificio, come donativi, e solo uno è il vincitore, ed è subito mito, con il palio che avvolge il ragazzo, trionfante, portato sulle spalle in processione come una santità, per le vie del paese fino alla sua abitazione, con quel drappo, “per farsi un vestito” e non essere più “zingaro” (così la tradizione orale). Nel 1980 con Bruno Ramunno, allora studenti, realizzammo un videomaker per un esame, una ricerca sul campo sulla “Corsa degli zingari” finalizzata successivamente a una pubblicazione edita dalla regione Abruzzo. In quell’anno, Crescenzio Marchionda (classe 1899) e Gaetano Sanzio (classe 1908), entrambi di Pacentro (le ultime immagini sono rispettivamente le loro), raccontarono la loro “Corsa degli zingari”, sì la Festa della Madonna di Loreto che accoglie e guarisce infine i suoi zingari dopo la prova ancestrale e taumaturgica, ma dentro due narrazione che sono la visione del borgo e il tessuto sociale di Pacentro, il  “paesaggio” delle relazioni, il lavoro e quei “corridoi” della fonte orale e dei saperi locali che non troveremo mai da nessuna altra parte. Due racconti inediti della tradizione orale, quindi, registrati nello spartiacque, a Pacentro, tra sacro e profano, tra latifondi agricoli e la montagna dei pastori tra, infine, quella attrazione a superare le prove fisiche per essere protagonista, in definitiva, delle “periferie” di uno spirito antico, cavalleresco ci piace pensare, un blasone che torna senza tempo dove nascono i miti locali, mai estinti.

Questi i due testi rilevati della tradizione orale nel 1980.

Un asset i brani proposti, una risorsa dal valore economico e culturale che il paese possiede. Un bene è una risorsa con l’aspettativa che fornisca un vantaggio futuro in termini di ricostruzione della memoria per la creazione di un bene culturale dedicato in un luogo fisico del paese: la “Corsa degli zingari”.

Gaetano Sanzio, ha partecipato alla corsa. Classe 1908. Tradizione orale.

“Quando eravamo ragazzi, andavamo alla montagna, a zappare, e abbiamo passato tutte quelle tragedie di quegli anni, andavamo a giornata. Avevo 14 anni quando abbiamo cominciato a “vedere” questa festa. Ci siamo uniti 5- 6 compagni e andavamo a fare le prove su Colle Ardinghi tutti i giorni. Arrivato il giorno della festa, siccome eravamo tanta gente, ci andavamo in 20 – 25 a correre sopra questa montagna. Quelli del comitato andavano per la questua. Quando si vendemmiava, la gente offriva un litro di vino, lo vendevano, e i soldi li mettevano per la festa. Poi, quando si “trescava”, andavamo per le aie e la chiamavano “la festa della Madonna di Loreto”; allora, se ti trovavi a “ventilare”, prendevi due manate di grano fino ad arrivare a tre o quattro quintali di grano e poi lo vendevano. Anche il giorno della festa quelli del comitato uscivano per la questua, e quei soldi servivano per farci lo sparo e tutto quello che occorreva. La gente andava a correre perché ci teneva alla Madonna: se uno teneva la sposa, ci andava per farsi guardare e anche per acquistare un onore da parte della gente del paese. Questa festa c’è stata sempre da quando la Madonna di Loreto si trova là. Tutti quelli che vanno a correre, chissà che danno si dovrebbero fare, eppure non si fanno niente; solo qualcuno si fa qualche segno, perché è proprio la Madonna che ha messo questa corsa. L’arciprete Di Ciccio voleva toglierla perché si facevano male i giovanotti, ma quelli della congrega non hanno voluto, perché la Madonna è venuta sotto questa montagna, alla “Pietra Spaccata”, ha portato questa corsa e noi la dobbiamo fare tutti gli anni. La Madonna di Loreto è miracolosa: un tempo antico, quando una donna doveva partorire, e non poteva, i parenti andavano in chiesa e accendevano le candele; poi prendevano la corona, la portavano alla donna e la mettevano sopra il suo petto. A distanza di 24 ore partoriva. E tutte quelle che dovevano partorire andavano a quella Madonna. Adesso la gioventù non crede più a niente, e le donne che lo raccontano ci vanno lo stesso, senza a stare a sentire il dottore. È una Madonna che rispettano tutti. Una volta le volevano levare il busto per metterle la veste, ma la notte i grandi rumori misero in allarme quelli che stavano vicino la chiesa. Era successo che la Madonna non ha voluto che le levassero il busto ed è rimasta così. Non se l’è voluto far togliere”.

Crescenzo Marchionda, classe 1899 (ex concorrente a molte edizioni della Corsa degli zingari). Tradizione orale.

“Mio padre era molto contento che ero nato io, perché aveva una “ponda” di pecore e voleva un figlio maschio per pascolarle. Quando sono arrivato all’età di 7 – 8 anni alla scuola non ci sono voluto andare e lui mi ci voleva mandare per forza. Sono arrivato all’età di 17 anni e mezzo e sono dovuto partire per il soldato, per la guerra; ho fatto la ritirata di Caporetto: facevo parte del battaglione “Buona morte” e ho anche le medaglie: poi sono tornato in licenza a settembre; c’era la gara della Madonna di Loreto e sono andato a correre. Quando andai la gente diceva: “Cinquino perde!” Ma io calai davanti al torrente Vella e i miei compagni che mi raggiungevano li buttavo sotto i muri, fino a che aspettavo il mio compagno, perché facevamo “alla parte” (gli alleati) e io vinsi e presi il palio. Poi sono tornato a correre nel 1926 e nel 1928; quando arrivavano gli altri corridori io ero di maggiore forza, li prendevo e li buttavo sotto i muri. Nel 1928 venne a correre uno di Sulmona e gli dicevano “Cipollone”; sembrava che sotto i piedi ci tenesse la suola. Quando abbiamo cominciato a correre lo presi e lo buttai al muro: un altro po’ e crepava. Mio padre non era contento che andavo a correre, perché mi si levò tutta la pelle dal tacco del piede e la mia fidanzata me la tolse con la forbice. “Tatà”, il giorno dopo, mi portò a cogliere le “mazzocche”. Come premio davano un vestito e un giacchettino se tenevi la fidanzata. Quando si fa questa festa e vedo i corridori sopra la “Pietra spaccata” che corrono, il sangue mi bolle, ci vorrei andare anch’io, ma ora ho 80 anni, dove vado? Quando vanno a correre quelli là e come se ci stessi anch’io, il cuore mi batte forte: quando correvo io lunga la via, e i concorrenti mi raggiungevano, li facevo passare, poi li prendevo al colle e li buttavo sotto i muri; adesso è tutto cambiato, se ce la fai corri, se non ce la fai cammini, ti scansi e fai passare i corridori, perché oggi c’è un’altra disciplina, non è come una volta. Eravamo tutti pastori: Alessandro di Pirro, Salvatore Papozza e, in quell’anno, quello che si fece più male sono stato io: mi si tolse tutta la carne sotto il calcagno, mi entrò una pietra e la cacciarono con una “spincula”. Una volta arrivato in chiesa, mi inginocchiai davanti l’altare e una femmina dietro le spalle disse: “mamma mia, che si è fatto Cinquino!”. Io non mi ero accorto di niente, perché là ti si addormentano i piedi e mentre mi giravo per guardare i piedi, sotto, avevo fatto una “pozza di sangue”. Quando tornai a casa, mi ci misero aceto e sale. Questa festa si fa perché la Madonna, quando venne a Pacentro, venne per il vallone, per il Vella, e si fermò a questa pietra grossa che è dipinta. La Madonna con un segno spaccò questa pietra e sta sempre là, non si consuma. Quando stavamo alla partenza, a questa “Pietra spaccata”, non si guardava nessuno, non si parlava: sempre con l’orecchio di sentinella teso a quando suonava la campana. Poi le giovinette erano contente che vincevo io, tutte mi volevano e aspettavano che andassi a parlare con loro per sposarle. Quando i concorrenti arrivavano alla chiesa, la gente la cacciavano fuori, non ci doveva stare nessuno. I corridori andavano diritti davanti all’altare, si inginocchiavano e ringraziavano la Madonna perché non si erano fatti male assai. I piedi erano tosti. Ma lo sai che devi tenere tosto? Il cuore, il cuore deve essere tosto. Non devi pensare al dolore, perché se pensi al dolore non corri più, perché là dove metti i piedi ci sono le pietre taglienti, gli spini, e siccome hai il cuore tosto che supera tutti gli ostacoli”.