di Vincenzo Battista.

Per raccontare il cibo della tradizione, e come questo sia potuto sopravvivere, attraversare il tempo, e giungere fino a noi, pressoché intatto il cibo, senza nessuna alterazione, dobbiamo torniamo di nuovo a Tornimparte, nei boschi. Parliamo di alimentazione, particolare, che adesso scopriremo. Iniziamo dalla foresta. La sua radice latina significa “ stare fuori”, o meglio era consigliato non avventurarsi, non superare questo limite invalicabile, poiché nell’antichità, nel bosco, si annidavano le più profonde paure, era la terra del non conosciuto, e quindi dell’ignoto, del terrore. Il bosco nasconde e trattiene, confonde e annulla orientamenti, itinerari, dove persino il cielo è nascosto alla vista (i viaggiatori, sulla Via degli Abruzzi, nel tardo Medioevo, durante i quindici giorni di attraversamento, vedevano raramente il sole). Dall’oscurità dei rami degli alberi, compatti, e dall’intricata vegetazione, i suoni naturali si mescolano tra loro, diventano una miscela di effetti acustici, secondo le storie mitiche, le fiabe, e i racconti popolari delle terre di Tornimparte. La foresta era abitata da esseri soprannaturali, creature silvestri “mazzamurielli” e “pantasime”, fauni e Jane, streghe protagoniste di storie antiche, creature misteriose e demoniache che s’identificavano con la profondità dell’ignoto del bosco. La selva oscura rappresentava la prova d’iniziazione, come narrato nelle opere cavalleresche. L’attraversamento della foresta era il simbolo della femminilità, inesplorata. Allora, chi poteva introdursi nel bosco, chi possedeva il salvacondotto per entrare in questo mondo tenebroso e arcano fatto di paure. Vi avevano accesso solo le compagnie, così chiamate, dei leggendari carbonai di Tornimparte, legati anche da vincoli di parentela. Gruppi semi nomadi che avevano il domicilio del loro mestiere nei boschi, dai magri profitti economici. Custodi di un’arte antica, i gruppi vivevano avvolti dal nero della fuliggine che scaturiva dai processi chimici e fisici della carbonizzazione della legna. Si bruciava nel grande cono centinaia di quintali, eretto in una radura a ridosso della boscaglia, con il taglio degli alberi. Dopo, si ricavava carbone vegetale per la vendita. E’ c’era anche il tempo per le fiabe e poi le storie di briganti. Infine il cibo, giunto fino a noi, patrimonio alimentare, semplice, ma di grande valore culturale. La ventresca “agliu zippu”. Su un lungo bastone s’inserisce la ventresca di maiale per la cottura alla brace, poi è passata sul pane. Era affumicata all’interno dei camini e infine conservata nelle cantine. La pasta fatta in casa con il grano di solina, essiccata al sole, si consegnava ai carbonai nei canestri. Le” panonte n’dorate”, il pane cotto a legna, poi nell’uovo sbattuto e fritto in padella. E infine la polenta, cibo quotidiano, nella “ cucina dei carbonai”: un asse verticale infisso nel terreno, chiamato “monaco”, e un altro orizzontale, incassato, chiamato “camastra”, sostiene il caldaio con dentro la polenta. E’ poi è magia. La polenta si gira velocemente, fino a far fuoriuscire il fumo dal caldaio. Provateci…

Computer grafica di Duilio Chilante

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