Cordata x l'africa - Amici di San Basilio

 

L’Aquila, Sto Arrivando. Twitter dal monastero di San Basilio con l’attore Alessandro Sevi e il musicista Francesco Mancini. I testi in anteprima.
lunedì 26 agosto 2013 06:37

Letture sul viaggio e melodie del racconto con l’attore Alessandro Sevi e il musicista Francesco Mancini. L’iniziativa è stata curata da Vincenzo Battista, che la descrive in anteprima su IlCapoluogo.it, rivelandone i testi. Appuntamento lunedì 26 agosto alle ore 19.30 nell’Orto del monastero di San Basilio a L’Aquila (Zona ex ospedale San Salvatore).

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Quello che resta . . .
di Vincenzo Battista

Saranno l’attore Sevi e il musicista Mancini a dare concretezza e plasticità all’evento, fuori dai clamori e dagli echi, dentro l’orto delle celestine di San Basilio. Ce lo siamo detti: quello che è giusto fare, quello che si può fare.

Davanti a noi la statua seicentesca appena restaurata di San Pietro Celestino, con la mano destra benedice e con quella sinistra regge un libro: il “Verbo” che si fa carne, il suo significato. Le Sacre Scritture penetrano e sono tutt’uno con il corpo nell’allegoria della scultura, una sorta di utopia che per secoli ha viaggiato con la figura dell’eremita del Morrone.

I confini sono fatti da coloro che li attraversano, ci siamo ancora detti, e nel tempo e nello spazio, nella piccola utopia di questo luogo dell’Aquila, saranno loro, Sevi e Mancini, a cercare un ponte ideale con la missione delle suore Celestine in Africa, dedicata appunto a San Pietro Celestino, per completare la costruzione di un piccolo presidio ospedaliero.

Loro, con la recitazione, le musiche – composte appositamente per l’evento – e il montaggio dei Twitter, in una diversità narrativa che si può fare, narrante, in una formula di controcampo compositivo: brani che si affrontano, si “guardano”, quasi si sfidano, si rispondono infine, evocando una sorta di lettura rapida, quasi ossessiva, incalzante, frontale.

Da una parte gli autori storici del Novecento (D’Annunzio, Gadda, Titta Rosa e Silone) leggono “il viaggio e la città storica, anche dall’interno”; ad essi si contrappongono brani contemporanei, gli uomini le donne e i bambini dell’Aquila, le persone che assumono forme inanimate, metafisiche, voci dal “fondale” che hanno vissuto la città, la rappresentano, con toni spesso aspri, drammatici, di smarrimento, riferiti ad un recente passato fatto di pene e dolori per la città, sì, “la città della memoria” e le sue genti.

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I TESTI

Adesso L’Aquila sorgeva davanti ad accoglierci, e fu, dopo gli strani eremi del monte, il capoluogo munito, la città castellana, religiosa e pastorale con gelide nevi dietro, e il nero vertice dell’Italia nei cieli, quasi richiami di un’idea fredda dei venti sopra il tepore dell’ostello, dove il fiume, il fuoco: e radunati, intorno, gli umani. (Gadda)

Voglio la mia casa, e la mia casa non c’è più. Voglio il mio corso, i miei portici, la mia basilica di San Bernardino, la mia villa, il mio parco di Collemaggio, il mio meraviglioso e stupendo centro storico e ora non c’è più niente, niente.

Vedendo la levante, come diceva mio nonno, all’Aquila si poteva arrivare, oltre che dalla scorciatoia della chiesa di Collemaggio, anche per altre due porte: ma la più vicina se non la più comoda, era quella di porta Bazzano. Là c’erano i gabellieri, seduti a cavalcioni sulle seggiole, col berretto di traverso sugli occhi e un’aria sospettosa e strafottente. (G.T. Rosa)

L’Aquila non ha più rumori. Ovunque c’è un immane, devastante, incredibile silenzio. Attonita percorro vie e quartieri, senza vedere nessuno, se non gatti e cani emaciati. Un deserto di presenze e voci.

Si avvicinavano le ore della notte, già la stanchezza del viaggio pesava. E il vento venne, messi in fragore i castagni, delle gole del Piceno abbuiate. Ombre, salendo, rincasavano da fuori le mura: qualche bicicletta portava il suo padrone al contado. (Gadda)

Terra madre. Terra matrigna. Terra aspra. Terra dura. Terra nostra. Terra mia. A questo inconsapevole ricordo affido la memoria della Tua bellezza in una geografia che non sarà mai più spaziale ma che ora e sempre sarà solo interiore.

Si girava la strada del colle, passavano gli orti, i pagliai, le querce. Si faceva giorno quando si sboccava nella piana d’Onna; i colli, che avevamo avuto sempre a ridosso, coi paesi in cima alle falde, in uno sfondo di cielo più verde che azzurro, biancheggiava alta la città. (G. T. Rosa)

Una città da sempre invisibile, silenziosa, sgabuzzino. Mai alla ribalta, mai popolare, inesistente persino sulla carta metereologica, discreta, all’angolo.

I lumi dell’elettrico apparvero, dondolando, nella fredda limpidità della sera. Da uno spalto guardai a lungo, in direzione di Paganica e di Poggio, ed oltre, verso i Vestini: giù dentro la valle, d’un calesse udivo schioccare la frusta, e il trotto, generoso al ritorno. (Gadda)

Come potremo mai vivere senza quei luoghi, quei riti, quelle abitudini, in una periferia reinventata urgentemente, in un’anarchia pianificata o improvvisata, con lo sguardo impaziente e inquieto . . .

In cima alla salita la strada tornava pianeggiante e le ergeva a fianco una lunga muraglia grigia, antica : era il fianco della chiesa di Collemaggio. Porta Sancta stava scritto sull’architrave; e il nonno mi diceva che quella porta s’apriva una volta l’anno, nei giorni di festa di San Pietro Celestino. (G. T. Rosa)

Continuano a morire le persone. . . anche giovani, le più fragili. Fiaccate da antiche malattie e sfinite nell’anima, tradite dalla casa dove volevano morire . . . Una cruda selezione naturale.

Volevo arrivare all’altra delle due celebri chiese dell’Aquila, ch’è fuori dalla cinta dei muri, sul solitario colle, verso la discesa del fiume: ma vi arrivai la notte, indugiandomi né pensieri e né passi, ad ogni canto e pretesto. (Gadda)

Narrare l’immagine dell’Aquila o L’Aquila immaginaria? La città: documento letterario e documento storico, ritmo si passioni, artificio, bizzaria, curiosità. La città: il costruito e il nominato; il fantastico e il fantasioso; la grammatica di un incontro continuo tra realtà e fantasia.

Così arrivo finalmente, dopo due giorni e due notti, a Santa Maria di Collemaggio; ch’era la meta. Le tre rose ad occhio, dal musaico del fronte, mi guardano con la limpidezza d’un pensiero giovanile. Una mano divota le ha colte, ne ha rifiorito, con l’alba, tutta la purità del disegno che si distende sul piano di facciata. (Gadda)

La fantasia oggi ci aiuta ad orientarci nella città perduta dell’Aquila, perché non sapersi orientare nella città non vuol dire molto. Ma smarrirsi con la fantasia in essa, adesso, come ci appare in una foresta, è una cosa tutta da imparare.

Era la facciata della chiesa: un’altra pagina di pietra, fiorita di un musaico multicolore, come la pagina d’un messale. E separate da un lungo cancello, le tre porte; coi merletti di pietra, i cordoni, le foglie, le cuspidi, le figure, le nicchie, e in ognuna un santo, un profeta, un patriarca. (G.T. Rosa)

Per me è sempre un piacere, trovandomi in Aquila, di passeggiare nelle ore propizie della sera, tra le antiche mura, evitando se possibile, i portici del centro e i viali dominati dal traffico dei motori. (I. Silone)

Mi allontano, esco! Porto con me ricchezza. C’è molto in me: un’idea, una luce, una goccia, un volo, misure di tempo, frammenti d’arte. Tutta una piazza intera! E vado, vado, carico di emozioni e di frammenti, vado nello spazio mio a costruire. Voglio costruire la mia piazza.

La città, vista da quella parte, s’alza alta sul colle: bianca di ville nuove, fino alle turrite e fosche sommità delle antiche chiese di San Domenico e di San Marciano, della mole delle carceri. (G.T. Rosa)

Caro Papa Benedetto XVI, ho sempre sognato di poter scrivere un giorno a una persona importante, ho sempre sognato di poter spiegare a questa persona ciò che provavo, ho sempre sognato di potergli spiegare come io amo la mia città, L’Aquila, e di raccontargliela così come negli anni ho imparato a conoscerla, e ora mi ritrovo a scrivere una lettera che forse non arriverà mai alla Sua attenzione.

Tutti giustamente ammirano il dedalo di vicoli, scalinate, piazzuole, giardinetti, degli antichi quartieri di Santa Giusta, Santa Maria Paganica, San Pietro Coppito, San Marciano, che i forestieri di solito trascurano. (I.Silone)

La città ha una funzione primaria, trasformare il potere in forma, le energie in cultura, la materia morta in simboli viventi d’arte.

Ma è certo che fantasmi di guerra e di poesia hanno sempre aleggiato sulle mura della “città che ha un nome imperiale”, come lo chiamò un poeta purtroppo crepuscolare. Lo splendore medioevale e rinascimentale dell’Aquila, nell’arte, nella poesia e nella religione, è attestato dalle sue chiese, e non solo dalla meraviglia romanica di Santa Maria di Collemaggio. (G. T. Rosa)

L’anima tua sapora balsamo, il vento scarmiglia le vie, tùrbina le piazze, e lo sdrucciolo modula la voce sfrontata della strina che cede al soffio e diventa armonia, fredda e soave!Ti seguii come poeta ottocentesco, cantavo la mia romanza amara, svanisti all’amore dolorante fuggendo per Capopiazza! T’amo ancora, ma non voglio adularti come messere assai cortese e tu, Aquila immota e fiera non sei una cortigiana.

Ricchi e poveri, gli abitanti di quei vicoli hanno, per la scarsa immigrazione, qualcosa di comune ed ereditato nel carattere, il cui tratto più notevole, specialmente nelle donne, mi pare la fierezza. So bene che certi abruzzesi di altre città rimproverano appunto agli aquilani l’orgoglio. (I. Silone.)

Ora, una città è come la gente che ci vive. Per raccontarla bisogna raccontare la gente, i suoi sogni, le sue parole, le sue storie vere, inventate, fantastiche, fantasiose, disinvolte, surrealiste, mirabili.

In certi assolati pomeriggi estivi i canti delle lavandare della Rivera, come le chiamano, si espandono nell’aria ferma e limata dal lungo, continuo stridìo delle cicale, e si sentono fino alla vicina montagna di Rojo, nera di fitta pineta. (G.T. Rosa)

L’immagine della città, la sua rappresentazione mentale oscilla in un gioco accattivante tra luci e ombre, esperimenti coraggiosi ed abbandoni colpevoli, recupero del passato e proiezione nel futuro.

Nella loro città, come nel resto della regione, modernità e tradizione si alternano in un equilibrio instabile, che può facilmente trarre in errore l’osservatore occasionale. (I. Silone)

E lì è finito tutto, tutto. La mia città i miei luoghi, i miei ricordi, la mia vita, i miei amici, i miei conoscenti, il mio passato presente e futuro, incredula da tanta inumanità e ingiusta voracità nel divorare.

Il capoluogo della terra scoscesa accoglie, come ogni centro d’un sistema di pensieri e di atti, gli uffici e le pere della socialità: l’albo del pretore e le opere della socialità: l’albo del pretore sotto l’antica torre, in palazzo; la corte, il banco, il liceo, le terme, l’ospitale, il carcere, il monte: e ogni tetto lo guarda, come un mastino, il dato del tenebroso castello. Tempi di Spagna. (Gadda)

E’ vivissimo in me il ricordo della dolcezza della mia nonna. Nere le sue vesti da sempre, tanti lutti avevano vissuto. Nero il fazzoletto di lana pesante, racchiuso con due nocche dietro la nuca. Nero il vecchio grembiule con la sola tasca destra, ricolme di mille cosucce familiari: il rosario, il fazzoletto, le mentine per le tosse, il libretto di preghiere, la novena alla Madonna del Rosario di Pompei.

Per tre giorni era una giocondità meravigliosa di sole e d’azzurri su quali spiccavano le vette nevate del Gran Sasso. Aquila è una simpatica città; a me piace assaissimo: è piena di fontane, piena di cittadini garbati e di donne belle, ha delle chiese superbe, delle antichità pregevolissime, e nell’aria qualcosa di medioevale , ma di lietamente medioevale. (G. d’Annunzio)

Tu hai il mio cuore, L’Aquila . . . mi annoio nel vago sentire dei giorni che scorrono lenti senza una meta, mi giova ben poco la rara illusione che affonda nel nulla il tuo vuoto destino. Guardo intorno, non trovo bellezza, non vedo armonia, non scorgo certezze, la vaghezza mi assale e dilania.

Non ho visto mai L’Aquila dall’alto; ma se dovessi darne appunto un’immagine dall’alto, l’assomiglierei a una grande croce bianca adagiata su un colle: le braccia rivolte a ponente e a levante, fra porta Romana e San Bernardino, i piedi e la testa distesi tra sud e nord, da porta Napoli al Castello. (G.T. Rosa)

Il 29 Maggio sono nella zona rossa e un’immagine mi ha colpito al cuore, alla base delle colonne dei nostri Portici è nata l’erba, ho pensato subito a Ruskin e alla sua idea di monumento lasciato al tempo e alla natura, e un nodo mi ha stretto alla gola.

Macallé, il trattore-nano dal nomignolo color d’Africa, mi riverì nella sua stamberga assai linda, ove, alla tavola, dimandai coscia di capretto e un boccale. Quel nome, con gli anni oramai dileguati che lo accompagnano, suscitò un vespaio al cervello, dove arzicocolava da qualche ora, come un raggio di perduta poesia. (Gadda)

L’Aquila non temere, ci siamo noi bambini che ti vogliamo bene. Riapri le tue lunghe ali ferite dal terremoto e torna a volare. Il tempo guarirà e riporterà tutto alla normalità. Risorgi come è risorto Gesù e non crollare mai più. Vola, vola, vola più in alto che puoi. Eleonora Ricciuti – 10 anni

Lasciatemi qui dove la piazza chiara si apre, declive ai gradini all’arco e alle torri del Duomo: piena di tende, di gabbie di polli: fruttifera e insigne di peperoni, di bretelle, di padelle, da pantofole, di paralumi e di piatti mal cotti, che il lucchese uno dopo l’altro li lancia verso il cielo e poi come un giocoliere di riprende. (Gadda)

E il nostro famoso Piazzale Paoli, il parco dove ci incontravamo e giocavamo le nostre partite di pallone? Matteo era un vero amico, simpaticissimo, eravamo una coppia molto vivace fin dalla scuola materna, tanto che hanno pensato di metterci, in prima elementare, in due sezioni diverse, anche se noi trovavamo comunque il modo di stare insieme lo stesso: alla ricreazione, nel corridoio e nelle attività che facevamo insieme. Matteo era un bambino molto forte e robusto, con i capelli biondi come me, però con gli occhi castani.

Ma la più bella ora dell’Aquila e quando suona mezzogiorno. A un tratto. Dalle sue chiese, il rombo delle campane esplode nell’aria luminosa, corre sui tetti un fiume sonoro, dilaga dappertutto sulle vie, per le piazze, verso la campagna. (G.T. Rosa)

L’orto era nel suo splendore primaverile. Per arrivarci, la Superiora aveva fatto passare i due ospiti tra i meandri del monastero mostrando loro, in particolare, gli affreschi più antichi e soprattutto quelli raffiguranti San Benedetto e San Basilio, un altro san Giovanni Battista e un San Michele Arcangelo. Abbacinati dal sole alto, i tre rientrarono nel convento e la Superiora li fece accomodare in una saletta che precedeva il refettorio. «Dico a suor Valeria di prepararvi il caffè. Torno subito» disse la Badessa scomparendo dietro la porta del refettorio.

Scendendo alla fontana delle 99 cannelle, mi scontrai nella gioventù garrula del vecchio liceo, che veniva di scuola, a frotte: le signorine, cariche di libri, avevano a lato i compagni: poi una gioconda piazza, San Biagio, dove abita il sole, dov’eran i carri e asinelli col basto: e cavalli in riposo, col muso nel sacco d’avena, con la coda ai tafani. (Gadda)

Giuseppe era un ragazzo meraviglioso: parole covate nel cuore ma mai pronunciate perché mio figlio non amava che io lo adulassi. Adesso, però, posso gridarlo a tutto il mondo che lui era un bel ragazzo ma soprattutto amorevole con i genitori, esigente e tenero con sorelle e fratello, premuroso con i nonni, rispettoso e disponibile con quanti lo conoscevano!

Sì mezzogiorno all’Aquila è sempre un segno di gloria che naviga nel libero spazio, e pare che spinga le nuvole, aeree mongolfiere bianche e oro, dal Gran sasso verso i monti della Sabina. (G.T. Rosa)

Mai comprenderò. Mai ti rivedrò e mai più parlerò con te, amico mio, che ridevi… e ora non sei più qui. Su di un carro d’argento, sei tornato dall’inferno e tra i pini e le persone nel silenzio c’era il tuo nome. Immobile fra tanti. Immobile fra tutto. Nel cuore e nella mente un grande vuoto solamente.

La fontana era il fiore necessario, l’indispensabile di tutti i provvedimenti civili. Da quella falda acquifera, molto probabilmente, la scelta del luogo : e forse, prima che da simbolo araldico, il nome della città: poiché la polla era già nota nei secoli e le acquicce che ne discendevano al fiume eran dette Aculae o Aquiliae. (Gadda)

I legami familiari ed affettivi di ogni genere si sono scompaginati, siamo diventati apolidi vaganti nello spazio indefinito, lacerati interiormente dal forte desiderio di riunirci. Avevo la sensazione di vivere una realtà onirica, un terribile incubo da cui avrei voluto svegliami.

La città nuova si allieta della nuova fonte. Come del vecchio fiume. Chi osserva quest’opera egregia, dia lode a tutto quanto avviene. Ma non ammiri l’opera: ammiri piuttosto i promotori dell’opera, cui il lavoro e l’integrità morale consentirono di essere i fondatori dell’Aquila. (Epigrafe della Rivera)

La città cambia volto e i suoi segnali sono quelli di una città in movimento, contraddizioni nuove si aprono e quelle vecchie si trascina irrisolte. Nella città di oggi i modi della vita sono retti troppo spesso dall’opportunità, raramente dalla solidarietà vera.

Francesco Ariscola seppe disegnare un portale al castello: con un’aquila, oh! Imperiale su pur monocipite, e due cornucopie mirabili : imprese turrite, armi, volute, fiori, chimere. Non c’è francobollo imperiale che valga il quadrato di quell’aquila. (Gadda)

Ed un cinguettio continuo un po’ fuori orario, con l’alba ancora un po’ lontana, un vociare di uccelli che invocava una tranquillità improbabile. Le mani ancora tremanti, il ritorno con passo svelto verso casa, col buio di una notte assurda, chiedendosi se da qualche parte quel buio avesse portato pianto e morte. E quella morte strinse a se la terra dell’Aquila, strinse a se i nostri fratelli, le loro vite.

Il centro della città e tra piazza del Duomo e i quattro cantoni; lungo i chiari ed eleganti portici, cuore della vita cittadina. Passeggiare sotto i portici, sedersi ai caffè, ascoltare la musica del presidio, prendere gelati e bibite è una delle più antiche e radicate abitudini degli aquilani. (G. T. Rosa)

Mia madre raccontava la guerra rispolverando gli episodi più paradossali e noi bambini ridevamo insieme a lei. La fame, gli stenti, le bombe raccontate con il sorriso di chi non ha mai pensato di arrendersi. Questo mi è venuto in mente osservando quello che rimane di piazza San Pietro.

Scendendo le vecchie mura, a porta Rivera, alla valle, nel momento che l’opposto contrafforte di Monte Luco più la rinserra, cupo nella sua selvetta di pini. Lungo la valle decede languido il fiume, fugge, il binario, con rimandi argentati nel sole, ch’è al mezzogiorno. (Gadda)

Voglio correre. Voglio nascondermi. Voglio abbattere i muri che mi tengono dentro, protendermi. E toccare la fiamma. Dove le strade non hanno nome. Voglio sentire la luce del sole sul mio viso. Vedo una nuvola di polvere scomparire. Senza lasciare traccia. Voglio ripararmi dalla pioggia avvelenata. Dove le strade non hanno nome.

La vita cittadina ha il suo centro nel breve spazio che passa tra l’incrocio dei Quattro Cantoni e piazza del Duomo, e particolarmente sotto i portici. Nella ressa che vi staziona, il ceto intellettuale prevale di gran lunga su quello degli affari. Sulle colonne dei portici i partiti politici tengono affisso il loro albo e i giornali murali. Vale quanto dire che le acque vi sono spesso agitate. (I. Silone)

I brandelli di vita nella città fanno appello ad un mondo sordo, insensibile, solo la follia, quella di una volta può raccogliere questi appelli per rimasticarli e stravolgerli. La città è capace di questa follia.

L’Aquila mesta e silenziosa mi echeggi dentro, non vedo fattezze ordinate e perfette, non scorgo sostanze rotonde allineate, trafitta, disfatta, urlante . . .