Testo e fotografia Vincenzo Battista.
I Parchi letterari dell’Unesco inarrivabili, sono in parte spesso declinati e ridotti, pur restando nell’essenza e nella disponibilità delle culture locali a cui aspirano, con parametri e tendenze di pregio, per esempio dei villaggi e insediamenti con peculiarità inattese, in forte crescita peraltro in Italia le cosidette “Piccole patrie” per strategie comunicative tanto che si promuovono e sono riconducibili ai profili dai forti valori identitari, il valore cioè geomorfologico dello stesso ambito urbano esteso, proviamo a pensare del borgo di Navelli ( me ne sono occupato in diverse pubblicazioni realizzate) – ne è un possibile esempio – , poiché coniuga la stessa cultura immateriale orale con un eccezionale elemento distintivo territoriale che alimenta l’attrattività, l’originalità, soprattutto ha il suo indirizzo nella creazione di identità e narrative uniche dei luoghi di appartenenza delle persone che ancor lì vivono. In qualche maniera andrebbero recuperate prima della totale scomparsa, queste “voci”, che formano e classificano il paesaggio diffuso. Pur essendo elementi intangibili, ed è lì la sfida: da provare a mettere in “profitto” per le stesse risultanze del borgo, e renderlo comunicativo e, pertanto, tutto da inventare nelle modalità metodologiche, trasmissibile per un turismo non di consumo ma di qualità territoriale, se c’è l’auspicio! Non facile, ma quello è l’orizzonte del punto di caduta della cultura autoctona, di appartenenza. Una traccia, labile, un piccolo spaccato, se potesse mai servire come considerazione, è costituita da queste formazioni di fonti orali, la narrativa, il racconto – l’affabulazione, cioè quello che resta in semplici conversazione, rintracciate, brevemente raccolte qualche settimana fa a Navelli, ma immaginiamo, per un attimo, se mai potrà essere lì, in queste “dichiarazioni”, che prendono comunque il suo tempo, il deterrente – campione per compendiare il “valore”, cioè il paesaggio antropocentrico e le sue gesta, anche storicizzate nel breve passato: l’autenticità non esportabile.I brani.Gli scambi, il baratto e la “condivisione”, non quel neologismo informatico attuale appunto, ma così come era nel passato nel paesaggio dell’Altopiano di Navelli, e non solo. Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento si focalizza tutto questo. Tre erano i pastori a Navelli che riunivano le pecore nelle greggi, morre da 150, 200 e anche 300. Ognuno nel paese aveva pochi capi, e si portavano nelle contrade di San Pelino, Serra, Asprino, Macchiarotonda e lì costruiva la capanna il pastore con pali e frasche per la notte. Si pascolava anche a Castellina, Santa Eugenia le contrade, e La Piscinola. Nel mese di aprile si intrecciavano le capanne che venivano trasportate nelle varie contrade, calcolate per la per la mungitura in base alle pecore possedute dai piccoli proprietari. Ad ognuno andava il quantitativo giusto. Le donne trasportavano il latte dalla montagna allo stazzo, e poi si preparava il formaggio e la ricotta per uso familiare a casa. In inverno le pecore stazionavano nelle stalle, sotto le abitazioni all’interno del paese. Quando tornava il gregge, alle pendici del borgo e a case costruite a ridosso della collina, dietro la stalla, si scavavano le grotte con il piccone d’inverno, si toglieva la rena che poi serviva per riparare gli intonaci e il tetto, per aumentare lo spazio, i locali, e stivare quante più cose possibili, il paese una sorta di “gruviera” con cunicoli e passaggi dentro la roccia, mentre le pecore si dividevano, transitavano sotto i passaggi coperti, gli archi dove le donne potevano lavorare al coperto nelle varie attività familiari, un via vai di animali che andavano nelle stalle, che riconoscevano. Il gregge si muoveva tra i vicoli e le rue cordonate del paese, ognuna andava nella propria stalla per abitudine: da aprile fino alla fine di ottobre però gli animali erano in montagna. La tosatura nel mese di giugno, la lana si cambiava con altri prodotti, oppure si lavorava al telaio, filata per gli indumenti. A Navelli le attività integravano la pastorizia e agricoltura, la famiglia produceva per autosostentamento con gli animali e le lavorazioni in campagna: olivi quindi olio, granone, grano, orzo, zafferano, e poi l’allevamento degli ovini. Lavoro e povertà, tutto qui, e schiavitù verso i proprietari delle terre che le concedevano in affitto a condizioni di sfruttamento a Navelli. E dovevi lavorarci da luce a luce, dall’alba al tramonto. Anche i piccoli proprietari potevano possedere il gregge di 100, 150 capi e andavano al pascolo. Le pecore, un’economia familiare con gli agnelli per la vendita. Autosostentamento quindi, non si incrementava nulla, solo il sale e lo zucchero si acquistavano… Quando si mieteva e si trebbiava si consumavano le salsicce stivate dal mese di gennaio, conservate sott’olio anche con i salami, si potevano mangiare anche dopo molti mesi, l’olio manteneva la freschezza. Fino al mese di maggio si conservavano dentro le “Cogne” con le maniglie, in terracotta, con l’olio di oliva delle piante di Navelli. Il pastore che riuniva la morra aveva in cambio “pochi spicci” a Navelli, ma poi gli si dava il grano, e un po’ di carne di maiale, alla fine dell’anno voleva essere pagato anche con i cereali e l’olio. La sera, dopo il pascolo, riportava le pecore al piano, poi risalivano in montagna e la notte dentro la capanna, mentre le pecore avevano il recinto con le reti di corde mobili infisse nei pali che le mantenevano allineate. Con i secchi in legno si trasportava il latte, si saliva con le prime Vespe, con l’asino o a piedi. Gli agnelli, selezionati si allevano per aumentare il piccolo allevamento. Le “Cogne” per l’olio, quindi preziose, oltre alle pile in pietra che contenevano l’olio, erano contenitori ereditati dagli antenati, all’interno lucide e smaltate in terracotta, mentre le pile in pietra erano scolpite all’interno e coperte con un tavolato o con una stessa lastra sempre di pietra. Patate, grano e orzo nel granaio in un locale asciutto, mentre il vino andava in un altro spazio perché si poteva guastare nel locale insieme ad altri prodotti della campagna, specialmente nella fermentazione del mosto. Nelle “stallette” alle pecore si dava il foraggio, barbabietole, le ”marrocchie” i cereali, foglie di quercia e di mandorla. La legna si tagliava nei boschi di uso civico, insieme alle mandorle con la potatura anche delle noci che si vendevano ai commercianti che le ritiravano con i carretti. Le piante erano molte, allora, l’altopiano era coperto di alberi, le potature delle piante indispensabili. La legna per l’inverno si trasportava con gli asini, i muli e i carretti. Lo zafferano era importante, si vendeva, non c’erano le pensioni, le spese e soprattutto le scarpe si pagavano con la vendita dello zafferano. “Si faceva la moneta”, venivano a trovarti a casa a prenderlo ma il prezzo era già imposto, i commercianti avevano fatto il “cartello” per tutelarsi nei prezzi e non farsi concorrenza. I contadini erano sempre penalizzati e sottopagati, oppure si andava alle fiere a Castelnuovo, Poggio Picenze, Barisciano ma poco cambiava. Lo zafferano costituiva una “entrata particolare”. Dello zafferano si sapeva il prezzo, la voce girava…. Si doveva fare tutto con lo zafferano, con le famiglia numerosa dove tutti lavoravano anche i bambini, e pochi erano i terreni da coltivare, pagare i debiti in autunno, accumulati tutto l’anno per i raccolti andati anche male: in quei tempi, lo zafferano era indispensabile per provare a comprare gli orecchini d’oro sempre alle fiere, e il corallo per le nozze, ma chi poteva, soprattutto per la dote delle figlie femmine. Era, allora, l’unico prestigio per la famiglia contadina, nella povertà delle risorse delle campagne, da mostrare in paese. Un racconto: “Nel 1947, si bruciò il pagliaio, e per allevare tre mucche abbiamo dovuto cavare i bulbi di zafferano, un disastro, poiché i bulbi si riproducono e aumentano la produzione di zafferano, non sapevamo che cosa dare agli animali, avevamo allora tre coppe di terra. La mattina prima di andare a scuola andavo a pascolare le vacche nelle scarpate delle strade e poi andavo a scuola, nelle elementari a Navelli. Dalle sei la mattina fino alle 8,30, poi entravo in classe”.
















