Le lacrime del faggio e gli arcari del Chiarino. Gran Sasso d’Italia.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

L’anno prossimo compirà 100 anni Giuseppe Capannolo. Monte Corvo e l’anfiteatro carsico delle “Solagne”, “Castrati” del Chiarino lo aspettano, non più per vederlo battersi contro le bufere e il nevischio improvviso prima di evacuare lo stazzo e le capanne in pietra dove viveva nella stagione che giungeva al termine della transumanza verticale, il vento gelido che taglia la faccia e congela le mani, il respiro,  il buio pesto improvviso della tormenta ma è comunque giorno, i lupi pronti a tutto, il gregge impazzito che si apre a ventaglio e si spariglia dentro la nebbia, inzuppati d’acqua non c’è tempo per mangiare, quel poco, quando la natura ti volta le spalle e sei solo in quel teatro del lavoro della pastorizia impossibile e improponibile dei luoghi e della narrazione, tra il mito e la leggenda, ma che possiamo solo raccontare: la tradizione orale è  tramandata. I suoi “Cent’anni di Solitudine…” della biografia sono stati vissuti lì, dove i confini a quelle quote sono fatti da chi attraversa, dove nessuno mai verrà,  ti verrà a cercare, in quella plaga geologica del Gran Sasso delle valli glaciali interne, in quella calma apparente “bucolica” di un Gran Sasso imprevedibile che non fa sconti, in quell’imbuto di geografia fisica degna del dipinto “L’aquila”, anno 1883, di Teofilo Patini (soffitto biblioteca Provinciale – L’Aquila).

Capannolo Giuseppe, alias “Riscione”, a 12 anni, dallo stazzo “Capanna dei vaccari” a 1300 metri (Chiarino), scendeva alle Capanne degli arcari anche per incontrarli, lungo il fosso inciso dell’area topografica inquieta e nascosta dal sole, per “ammacchiare” la mandria, cioè tenerla sotto gli alberi in riposo per alcune ore togliendola dal sole. Il bosco.

Le Capanne degli arcari: dentro il bosco del Chiarino tagliavano i faggi e costruivano le madie, le arche, travetti, oggetti per la cucina, botti, tini, ruote per carretti, tavole, telai per la tessitura, sgabelli e un’altra infinità di oggetti. Gli utensili che utilizzavano: accette e segacci, poiché gli arcari vivevano nel bosco con le famiglie a seguito. Partivano da Arischia dopo Pasqua e rientravano la prima domenica di ottobre per la fiera del paese. Le arche, arredo contadino, una volta costruite venivano smontate, andavano su un carretto, oltre una trentina di “mobili” da comporre, venduti nelle fiere della Conca aquilana ma anche fuori provincia, e poi gli stessi arcari andavano in casa e le montavano nelle cucine delle case contadine: una sorta di Ikea ante litteram.

Per trovare il villaggio degli arcari, le tracce di un antico mestiere di nicchia estinto e rituale del Gran Sasso, bisogna forse varcare la “porta” del bosco (spazio archetipo di miti e fiabe, nella letteratura romanza i cavalier vi si addentrano per superare le prove e ritrovare se stessi), entrare quindi in una dimensione visionaria e irreale della vegetazione nel dominio degli alberi, che sovrasta, per la gamma cromatica dei colori che è inutile cercare in un catalogo. Il ruolo del bosco, ambiguo e misterioso come nella foresta del medioevo, in quella spirale di vegetazione bassa e avvolgente, un crocevia la macchia enigmatica dove abitano le leggende mai scritte, fino a giungere alle costruzioni in pietra a secco di arenaria, roccia sedimentaria: le capanne a secco. Tutt’intorno una foresta” tropicale” e con grandi foglie irreali, vegetazione fittissima, impenetrabile, il suolo umido e pluviale, impregnato d’acqua fino a sprofondare alle caviglie, banchi di roccia che si abbattono e scendono dalle pareti e tutt’intorno corsi d’acqua: un bioma per la massima biodiversità, e gli alberi di alto fusto che superano anche i 30 metri. Se non conosci l’odore del bosco, chi te lo potrà mai raccontare…

Nella località “Due fossi” si scende di quota, quindi le casette degli arcari appaiono quasi fosse un incantesimo, nella confluenza del torrente del Chiarino e torrente “Giardino” (accoglieva le acque dei rivoli di Pescine, Chiarinello, Acqua Rossa – risalivano le trote, deponevano le uova). Nella lingua di terra imprigionata e serrata dai due larghi corsi d’acqua che lì si congiungono, con salti e cascate d’acqua e le alte pareti di roccia di blocchi di arenaria che precipitano sopra i torrenti, tanto che l’acqua (si può bere) ha eroso e levigato la pietra del letto del fiume. Allineate tra loro come mattoncini Lego, avvolte e rivestite dalla vegetazione e dal muschio che le ha ricoperte quasi fossero un santuario Inca, le capanne in pietra si alzano dal suolo,  costruite dai blocchi di pietra. Alle loro spalle una scarpata (sito appositamente scelto) si alza per proteggerle. Tre i nuclei insediativi, gli alloggi, in un perimetro rettangolare ciascuno di tre metri e mezzo per sei, rialzato per circa un metro, di enormi blocchi pietra arenaria (sedimento sabbioso) prelevati dalle falesie o dal suolo lì intorno. Gli ingressi sono rivolti al torrente (nord- ovest), hanno pietre squadrate, lavorate negli angoli. Un’altra casetta in pietra è isolata e defilata dalle tre: cucina e dispensa, la rimessa degli attrezzi per il taglio degli alberi. La parete di fondo della casetta è a gradoni per poggiare le travi di faggio che via via salgono e armano il tetto, la copertura – ci dice Capannolo – doveva avere un’altezza, uno spiovente, una pendenza calcolata e proporzionata per proteggersi dalla pioggia. Si usava la “scopiglia”, una ginestra alla sommità del tetto, lunghi filamenti di erba che scendevano e rivestivano la casa del bosco. Dentro la capanna due o tre “rapazzole”, letti in telai di legno rialzati, accoglievano cinque o sei persone. Nella radura delle casette i muli “impastoiati” per non farli allontanare.

Con il compagno Fiore Zaccagno, Capannolo, allora dodicenne: “Portavo nella bisaccia il pane, formaggio marcetto con i vermi, budello grasso del maiale (“‘ngoia”) con sale, pepe e finocchio selvatico e, con gli arcari, seduti davanti al fuoco, si facevano le “struscette”. La “’ngoia” veniva scaldata su un bastone al fuoco e si strusciava sul pane. Le famiglie preparavano le “sagnarelle” ammassate, le pizzette uova e farina in bianco, “acconciate” con il lardo. Poi la polenta sempre in bianco con il lardo sopra un piatto di legno, “baglietta”, ci veniva offerta e noi ricambiavamo con il “marcetto”.

All’alba uscivano dalle capanne per trovare i faggi migliori, alti. Si sondavano con il “tasto” alla corteccia, toglievano un tassello al tronco.  Per vedere poi se aveva gli “striscetti” lunghi ed erano buoni, viceversa con gli “striscetti” corti si passava ad altra pianta. Gli “striscetti” lunghi. Con l’accetta si tagliava la corteccia e la lacrima del faggio scendeva, dritta, sul fusto della pianta di faggio: un indicatore per l’umidità della pianta. Era utilizzabile. Due persone, poi, tagliavano il tronco di 60 centimetri di spessore, alto sette, otto metri. Il tronco cadeva, e con il segaccio si tagliava a pezzi, a misura, in quattro parti: per le arche, le sedie, le travi, i telai della tessitura, le pale del mulino ad acqua. I pezzi più piccoli rimanenti per le posate, cucchiai, forchette, porta sale, mortale. Un tronco così stimato poteva produrre una quantità di tavole che sempre nel bosco venivano tagliate da due persone con il segaccio. Infine si portavano con i muli all’imposta di Ortolano, e con il carretto ad Arischia e lì si lavoravano le arche che non avevano chiodi se non di legno. Le tavole incastrate tra loro formavano l’arca nei quattro lati, il coperchio, il piano di carico sul fondo del mobile e i piedi di sostegno del mobile. Si annerivano con il fuoco della segatura di faggio per far stagionare il legno. Una volta finite lì dentro andava il pane, la pasta (alcune arche avevano il piano in legno che si estraeva e si allungava per ammassare la pasta), ma anche la biancheria della dote, poiché ogni casa ne aveva due. Le arche si barattavano con i prodotti alimentari: grano, lenticchie, noci, mandorle, formaggi. Venivano siglate e incise sul coperchio, firmate con un segno identificativo dell’autore del manufatto: ogni generazione di arcari aveva un codice di riconoscimento tramandato, ed ancora oggi è possibile risalire all’autore e alla famiglia di appartenenza. L’ultima concessione delle arche era l’arte Naif, popolare, non accademica, da autodidatta: le incisioni decorative sul legno di faggio brunito dal fuoco: rosette aquilane stilizzate (presenti nelle chiavi d’imposta dei portoni o sugli architravi), le volute, intrecci e losanghe (d’ispirazione Romaniche), i decori con un compasso artigianale realizzati dagli stessi arcari. Una concessione estetica, questa, al mobile divenuto un reperto, oggi, “dell’Industria del bosco…”.

Un particolare ringraziamento ad Abramo Colageo, archivista e storico locale di Arischia (il suo cospicuo archivio storico andrebbe valorizzato e consultato in una sede opportuna ad Arischia), per il trek verso le capanne degli arcari, la collaborazione e per tanto altro.