Santo Stefano di Sessanio e le sue terre che sembrano luoghi di fiabe.

martedì 4 settembre 2012 18:27

di Vincenzo Battista

Qualcuno dice che le narrazioni, da queste parti, hanno origine come per magia da un vassoio in legno chiamato il “capistiero”, con dentro però le lenticchie. Da lì, raccontano, possono nascere anche le leggende, gli intrecci delle fiabe popolari cruente, ma anche quelle a lieto fine.

Qualcuno dice che le parole dei narrati della tradizione popolare devono essere aggiunte e tolte.

Nella loro sapiente costruzione sono come le lenticchie (ricordano la catena del rosario) che dentro il “capistiero” una per una, vengono separate dai piccoli sassi, dai residui legnosi, dalle impurità: un lavoro domestico femminile condotto senza fretta, liberato quasi dal tempo, paziente, di fine stagione agricola. Esaltava l’affabulazione, la fonte orale, il racconto e la memoria dentro le case del borgo dei Cavalieri, poiché così veniva chiamato nei primi anni dell’Ottocento: “Era il posto dall’aspetto più medioevale che avessi visto fino ad allora – scrive nel 1928 Estella Canziani, in viaggio, attraverso gli Appennini, di Santo Stefano di Sessanio – Il villaggio si riuniva a chiacchierare, a filare, a dare da mangiare a capre e galline, tutti insomma con qualche incombenza . . .” compresa la concia delle lenticchie, “povere” come i fagioli, le patate, i ceci e il farro, coltivate nelle zone di montagna in un’economia di sussistenza dai contadini in perenne lotta con l’ambiente estremo, nel quale rimangono le tracce evidenti di grandi cumuli di pietre accatastati tra i campi, non come funzione rituale e protettiva, ma come il risultato di antiche consuetudini di spietramento dei terreni, per renderli liberi per le semine manuali a spaglio, per esempio, delle lenticchie, tra i mesi di marzo e aprile, e bonificati da questi grandi totem in pietra, monumenti solitari del lavoro agricolo alle pendici del Gran Sasso.

Le lenticchie vengono prodotte dentro piccoli bacini carsici, le conche, i fondovalle che drenano l’acqua mentre la neve spinge giù la terra sottile sciolta, una rarità tra le pietraie della montagna brulla di pascolo, con l’effetto di ottenere la massima produttività rispetto ad altre localizzazioni.

Tutt’intorno invece praterie e pascoli, capanne a tholos dirute e quei cumuli di pietra secolari, lavoro forzato di intere generazioni che lo hanno ereditato e le continuano a praticare per rendere fertili i terreni.

La coltivazione delle lenticchie è questa.

Tra i 1200 e 1600 metri nelle zone di “Prata”, “Valle Fresca”, “Portoli”, “Colle Doniche”, “Valle Pé di Toro, “Le Condole” solo per citarne alcune, toponimi antichi, sembrano luoghi di fiabe, si coltivano in una stima circa 300 coppe con un ricavato di 70 chili di lenticchie per coppa (la coppa equivale a 662,50 mq.).

Ma prima bisogna preparare i terreni in autunno: aratura e fresatura, poi la semina a primavera con giornate calde e senza vento, per arrivare alla raccolta, nel mese di agosto, nei terreni divenuti arazzi, texture, gialli con cromatismi sfumati sul verde che illuminano le conche carsiche e i contadini con le falci: “Se la Vigilia di Natale – narra la tradizione orale – c’è vento caldo, la stagione delle lenticchie sarà buona” nelle terre estreme, delle sfide, d’altura, della stella a cinque punte (potrebbe chiamarsi così l’intera area geografica), come i cinque comuni nati dalla divisione della Baronia di Carapelle nel 1810, tra cui Santo Stefano di Sessanio; cinque borghi alle pendici Occidentali della catena meridionale del Gran Sasso d’Italia; cinque raggi di luce, ci piace immaginarli così, della calotta stellare di questo microcosmo ambientale, forti di identità e cultura della memoria, complessi nella loro sedimentazione paesaggistica, ma distanti da un organico sviluppo dell’intero territorio che tra qualche settimana chiuderà prima le sue case, poi le luci, le sue montagne, e infine qualche strada, per tornare a spegnersi, come sa, e sopravvivere, finita la magia, nel lungo inverno artico della sua millenaria storia, da amare e maledire.

Fotografia Vincenzo Battista