SCONOSCIUTO GRAN SASSO – QUARTA PUNTATA.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

“Adesso che la tragedia, data quasi per scontata, incombente su di noi per quattro giorni, come d’incanto si è allontanata dando alla vicenda una lieta conclusione, ora che le ore di angoscia sono terminate e che nostre forze, sia pure lentamente, si vanno recuperando, ora che i fatti relativi alle operazioni di soccorso ed al successivo ritrovamento e recupero sono stati, anche a noi resi noti, sentiamo di ringraziarla profondamente per il suo personale intervento e per l’opera svolta dal Soccorso Alpino della Guardia di Finanza (S.A.G.F.) che nella sera del 6 ottobre fino al nostro ricovero in ospedale ha effettuato le operazioni di ricerca in modo instancabile, deciso e fattivo dimostrando encomiabile spirito di corpo e massima abnegazione, nonostante l’inclemenza del tempo e l’asprezza del terreno. Vogliamo, inoltre, mettere in evidenza anche le qualità morali dei predetti alpinisti, i quali hanno riacceso nei momenti difficili e nelle ore inquietanti nell’animo dei nostri familiari la speranza”. (Lettera inviata il 27 ottobre 1974 al Comandante del Gruppo Guardia di Finanza, L’Aquila).

-“Il sentiero pietroso che porta a Pizzo Cefalone – scrive nel suo diario Alfred Steinitzer, naturalista ed alpinista tedesco in viaggio nel 1907, attento osservatore dei costumi e della cultura della montagna – si snoda tra alberi di noci e campi assai miseri.

All’inizio esso sale con lieve pendenza fin ai piedi del vero e proprio massiccio montuoso. Dagli enormi macereti che in questo lato riscoprono l’intelaiatura rocciosa s’erge come unica e spiccata vetta la bella piramide di Pizzo Cefalone, ornata ai suoi piedi dall’impenetrabile macchia grande, l’ultimo manto boscoso che non è incappato ancora nella devastazione degli uomini.

Tra larghe curve la mulattiera conduce agli assolati pendii. Le depressioni che la fiancheggiano in entrambi i lati erano coperte fino a 2000 metri ancora dalla neve esposta ai raggi implacabili del sole.» anche per noi, che saliamo, entro un’area sito di sedi preistoriche, centri altomedievali, torri, mandroni e capanne a tholos, grotte ed edifici di culto, chiese, edicole sacre, borghi come S. Pietro, alpeggio estivo dei coloni che sfruttavano quelle abitazioni temporanee per dissodare i campo d’altura della valle del Vasto, Raiale, dell’antica Genca: perimetro storico, insediativo soprattutto per l’antica pastorizia, ambito spaziale selvaggio dell’Appennino che inizia a salire, ma anche area di culto e catalogo antropologico dell’adattamento dell’uomo ai contesti geografici critici come per un suo grande interprete: Franco, l’eremita e santo pellegrino del XII secolo, effigie e santità per Assergi e quei luoghi, che dialogava e ordinava ai lupi di restituire i neonati, come narrano le fonti agiografiche, tutto questo alle pendici della grande muraglia delle Malecoste: presagio per tutti, frontiera, monito per chi voleva avventurarsi lì, senza certezze, e poi Pizzo Cefalone e Pizzo Camarda coperti dalla neve di aprile.

Saliamo, tra il manto nevoso, a volte ghiacciato. Lo spazio visivo si allarga sempre di più sotto di noi, per “ruotare” poi e aprirsi all’orizzonte, come scriveva Steinitzer; “sulla valle dell’Aterno e i possenti massicci del Velino e del Sirente”.

Con la quota cresce anche il vento, insopportabile, mentre attraversiamo gli insediamenti pastorali e la località Pietra Cavalli, dove le mandrie sono spinte dal nemico di sempre, fatte risalire su in cima, diligentemente attraverso un programma, dal Piano e Lago Camarda, fino al Procoio, oltre non si può, c’è l’orlo e quel pianoro precipita giù per centinaia di metri nella valle del Chiarino, a nord. Loro, i lupi lo sanno, assediano e spingono la mandria fino al baratro, selezionano e cercano di dividere i puledri che galoppano a fianco delle madri: poi non è altro che un correre incessante lungo i bordi del precipizio, su e giù, continuamente, ma i lupi sono lì, per sfiancare, atterrire e sconcertare la mandria, distrarla e selezionarla, preparare il banchetto, quando il capo branco mollerà, esausto, tirandosi dietro il suo clan, ma lasciandosi dietro il “pizzo” all’antica fame della macchine predatrici della montagna che si avventano, straziano con una furia inaudita le carni, con le pupille dilatate e le zampe anteriori ferme come due leve. Soltanto nella primavera inoltrata le ossa inizieranno a sbucare dalla neve, e poi sarà la volta della carcassa del puledro, levigato dalla neve e dal sole.

Siamo giunti sulla grande balconata del Piano Camarda che guarda il lago di Campotosto, Monte Corvo e Corno Grande, dove i venti gelidi dell’intera catena del massiccio del Gran Sasso si insinuano dentro i corridoi delle valli glaciali, e qui sembrano incontrarsi, tolgono il respiro, giocano con la superficie ghiacciata, gobbe e cornici formate dal vento (su cui rischi di camminare, per guardare il paesaggio sottostante e sprofondare giù se queste si spezzano, nel Chiarino), fino all’ultimo strappo, in una temperatura bassissima e in una tempesta furiosa che in un vortice avvolge tutto, fino all’ultima salita coperta di ghiaccio, “la rampa”, che percorriamo per la vetta di Pizzo Camarda e il suo crocifisso in ferro: un luogo, sappiamo, piaciuto anche a Giovanni Paolo II.

(Quarta di cinque parti).