Le torri della Conca aquilana.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Lo skyline, la linea di profilo della villa San Giovanni contro il cielo, doveva apparire frastagliato, interrotto dalle alte sagome quadrangolari in controluce, le torri, che ogni famiglia aveva innalzato sopra la propria casa: carattere urbanistico di una economia minore particolare, come vedremo, ma anche segno distintivo rispetto agli altri insediamenti poco distanti dal paesaggio urbano, “diffuso”, policentrico come si presenta visivamente ancora oggi San Demetrio né Vestini: aggregazione di sette ville. Sette distinti nuclei in una pianura modellata da rilievi, colline, improvvisi avvallamenti; tagliata da fenditure e inaspettati speroni argillosi su cui, appunto, in uno di questi sorge la Villa di San Giovanni chiamata anche borgo delle torri, delle colombaie, per l’allevamento dei colombi.

E quella era l’unica carne che i contadini potevano mangiare – raccontano – tanto da segnare il nome di una strada minore, via delle colombaie, un asse viario che attraversa l’agglomerato urbano e sembra spingerlo sull’orlo con la chiesa omonima di San Giovanni (istituita con bolla del 1178, Papa Alessandro III) in equilibrio su una rupe e giù la falesia che precipita nella forra sottostante. Ma prima le torri. Alte anche quindici metri (costruite in pietra e malta), molte sono crollate; tante sono state riassorbite dagli edifici, altre “tagliate” e ridotte a casa-torre che cingevano l’impianto difensivo un tempo, anche su due piani e infine qualcuna è stata restaurata. Nella Seconda guerra mondiale, con i tedeschi in ritirata, nelle grotte ci nascosero di tutto: mobilia, biancheria e persino prosciutti. Poi murarono l’accesso, ricoperto di vegetazione per nascondere l’apertura.

Le tante torri svettavano sulle case contadine: torri – colombaie, per la carne delle colombe che arrivava a “domicilio” proviamo a pensare, per il paese, per la gente e i nuclei familiari, dentro quella inusuale volumetria verticale: un’architettura le torri, spontanea, autocostruita, che si alzava sopra i tetti delle case, uno spazio – economia per procurarsi quindi la carne. Ma poi, mai, si potrà conoscere la datazione iniziale di quella “metropolitana” scavata, a differenza delle torri puntate nello spazio, che viaggiava invece dentro il ventre “cretoso” del borgo di San Giovanni: un incredibile dedalo di grotte che i contadini scavavano e non sapevano mai dove andavano a finire, armate con archi in pietra (erano gli stessi contadini o qualche mastro – scalpellino che lavorava la pietra degli archi a tutto sesto che reggevano e armavano le volte), profonde e ramificate con anse e nicchie, entravano nelle viscere del “paese d’inverno”. “La grotta rifugio”, accoglieva la comunità, quando si spegnevano dentro le case i fuochi dei camini per non utilizzare tutta la legna; si andava lì a scaldarsi, con il tepore degli animali. Si riunivano una decina di persone, circa, il vicinato nella cavità lungo la via, e lì, il paese d’inverno trascorreva il tempo, ma anche dentro un’altra ventina di grotte (un iniziale censimento), scavate sotto le strade, sotto le case, un’altra “società”; alcune s’incontravano: il diaframma di argilla veniva rotto e si congiungevano; “Baronitto”, “Aqui” erano i nomi di alcune grotte. Nel sottosuolo il “cretone” così chiamato, “così dicevano gli antichi”, terra compatta scura, si staccava dalle pareti o dalla volta con il piccone, per fare spazio alle pecore e agli agnelli appena nati, ai cavalli, alle vacche, al maiale e anche agli animali da cortile; poi gli attrezzi agricoli, il telaio per la tessitura in un’ansa della cavità per non rubare spazio all’arcolaio e al filatoio e a fianco le patate, le botti del vino, le mele e tanto altro in quella dispensa della società d’inverno che si era reinventata, marginale e sconosciuta nella Conca aquilana, “senza scrittura” e quindi senza potersi raccontare, ma gruppo demografico, coeso, che ha saputo metabolizzare l’organizzazione degli spazi collettivi per secoli scavando, adattandoli poi al difficile contesto climatico locale.

I lunghi inverni, quindi, e la povertà delle risorse sono diventate un carattere etnografico da queste parti: un microcosmo in definitiva, che ci restituisce modelli culturali sconosciuti, linee di forza per comprendere la storia degli uomini mai scritta e del paesaggio della Conca aquilana di cui non potevamo ignorare proprio lì, sì, lì, l’ origine della narrazione: quell’affabulazione alla luce delle lampade ad olio che illuminavano le nenie nelle fasciature dei neonati, mentre quell’epistolario collettivo tenuto nel grembo della terra si liberava, usciva dalle grotte nelle gelide notti dei borghi aquilani, e diventa fiaba, novella, sì di Natale, trascinata, spalmata in ogni dove: i Beni culturali immateriali.

Nota.

La grotta di “Baronitto”, profonda circa 20 metri, con anse, vani e absidi scavati nel terreno argilloso per gli animali e uomini, si incunea sotto le case e le strade, insieme ad altre grotte si ramifica, a diverse quote altimetriche, e spesso le cavità s’incontrano nel sottosuolo di San Giovanni, villa di San Demetrio né Vestini.

Le immagini.

Il borgo di San Giovanni, Villa di San Demetrio né Vestini.