Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Più tardi, ma molto più tardi, la brezza avrebbe fiaccato il fuoco di San Giovanni prima, tra le “torri”, i blocchi monoliti, i palazzi in definitiva, e dopo, ridotto a un enorme “braciere della rievocazione” nello slargo di terra battuta: un pantheon dell’immaginario collettivo, questo del solstizio dell’estate, a ridosso delle mura medievali, e dentro una sorta di altare, il fuoco penitenziale, logos ancestrale delle alchimie, fabbrica dei desideri, delle “prove ” nel saltarlo, delle invocate divinità magiche, sarebbe rimasto e al suo fianco, custode , la notte, e il bosco di palazzi, a sorvegliarlo fino alle prime luci dell’alba. E’ il mito di San Giovanni e delle sue erbe aromatiche portatrici di fortuna raccolte tra le pietre del perimetro fortificato. Santa Croce, tra il nastro della 17 bis e la forra, la cinta muraria e porta Barete , allora sconosciuta (si passava sui camminamenti con archi e frecce) , con le sue sorgenti dei “riti ludici” a caccia anche di uccelli che si esibiranno sulle punte delle canne. Oggi, seppellite le acque, bene culturale cementificato, circondate un tempo da una fitta vegetazione, quasi un piccolo eden ” relitto” di una antichità fondativa della città di Aquila che ci continua a scivolare addosso, ma il quartiere, e soprattutto il falò, allestito dopo molte settimane di lavoro comunque tornava puntuale, ogni anno alla vigilia del 24 giugno, allo scoccare della mezzanotte: per stupire nella diversità, meravigliare con i suoi bagliori e proiettare, liberare i sogni, in quella imperscrutabile cosmologia dei ragazzi. Il totem di legna di San Giovanni prendeva forma prima dell’accensione, nel quartiere nato di prepotenza sulla cinta muraria medioevale, come le tessere di un Lego: foresta conglomerata di tante tane, varchi, luoghi misteriosi e sconosciuti, temuti e segreti pur di stare in quel tempo parallelo, vissuto però da tutti noi nel desiderio di non uscire dalla fiaba del quartiere incantato…E non bastava nemmeno” l’evento” per rimuovere la “Prova di San Giovanni”: in due si scontrarono al centro del braciere, caddero, leggere ustioni, dissero al pronto soccorso dell’Aquila dove trovarono lì il loro lavacro, ma la leggenda, questa, corse, superò i confini di Santa Croce, elevando i due eroi al rango di giovani sacerdoti officianti il culto primitivo, ma ragazzi, a cui vennero tributati gli onori sul campo dai Signori del fuoco di San Giovanni delle “contee” di Valle Pretara , San Sisto e Santa Barbara. «E domani è San Giovanni, fratel caro; è San Giovanni. Su la Plaia me ne vo’ gire, per vedere il capo mozzo dentro il sole, all’apparire, per veder nel piatto d’oro tutto il sangue ribollire”, esclama Ornella, atto primo, scena prima della tragedia “La Figlia di Iorio” ( in tre atti del 1903) di un d’Annunzio alla continua ricerca di una cultura “diversa” per i suoi testi, affascinato dal mito della terra d’origine e della tradizione remota, di un Abruzzo primordiale delle tradizioni locali, delle “abitudini” culturali, dei miti frullati dentro il Decadentismo, il pensiero rivoluzionario della sua scrittura: memoria classica dei suoi studi, spesso interfacciato con l’etnografia dei racconti orali, struggenti storie, delle contrade interne, irraggiungibili, di un Abruzzo millenario fuori rotta. Ma non per Gabriele d’Annunzio. Questi miti, spesso, riconquistano idealmente una natura ritenuta ostile, trasformandola a vantaggio dell’uomo… “L’intervento”, chiamiamolo così, di San Giovanni Battista in queste terre della sua santità, tendeva a ristabilire due principi primari universalmente riconosciuti dalla comunità locale: allontanare il male dal corpo, “pettinare” e bonificare i territori dalle avversità per i lavori agricoli e pastorali di un tempo nella notte magica dell’anno e degli incantesimi. E il racconto continua a Santa Croce. Il bit emesso, costante e concreto é lì , da qualche parte, lancia il suo segnale, a sequenze ritmiche, in questa periferia-schermo di ” 2001 Odissea nello spazio”, che si “deve” raggiungere: Santa Croce, oltre il tempo di questi anni trascorsi, oltre ogni cosa é la memoria attrattiva, insistente, che forse vorremmo scaraventare lontano per girare pagina, ma non per i tanti che tornano discreti, “anime” incredibilmente chine e silenziose senza cedimenti, cercano ancora, nascoste e silenziose tra le cose a terra, tra le porte divelte, asportate, tra gli oggetti rubati e poi scaraventati, la memoria attrattiva, un flusso inarrestabile, di materia sensitiva che al suo interno non cerca soluzioni, ma forse si ciba di una sua radice antropologica: miscele di sguardi, il tempo come un nastro avvolgente, riflessioni che non sapremo mai, stati d’animo, ricordi lontani e soprattutto il tornare, il “viaggio” alla ricerca del bit: che nuovo scenario, che “spettacolo”; dove cercare le parole per raccontarlo, le espressioni per rendere tutto questo traducibile, tra i rumori costanti e continui della 17 bis e il silenzio brusco, rapido, avvolgente nei portoni dei condomini, dove ho persino ritrovato le mie impronte lasciate sullo strato della polvere molti anni fa, quasi fossero quelle immutate per l’eternità dello sbarco sulla luna, alzatasi ora, bianca come cerchio di schiuma, sbalorditiva nel suo divenire, nel suo pulsare, fino quasi a lambire la collina di Valle Pretara. Di grandezza esagerata, persino irriverente, scivola, sola e piena, su Santa Croce e le persone che sono andate via, non solo corpo celeste ma premonitrice e consolatrice dei mali, la luna si proietterà sempre di più, entrando nelle case, allungando le ombre dei palazzi, della foresta, dei “templi”, dei riti del fuoco esoterici di San Giovanni e la memoria delle braccia alzate, quasi a volerla toccare con le mani, la luna…
Le immagini aeree precedenti il sisma del 2009

 

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