Per noi del quartiere Santa Croce forse si trattava di una sorta di sospensione del tempo, la natura ritenevamo capisse e quasi si ritirasse, ripiegata, mentre gli uccelli volavano via, si allontanavano, quando, quell’oggetto apparentemente non identificato, tagliava l’aria con prepotenza e s’impossessava del quartiere messo in stand by, si alzava sopra ogni cosa, persino sulle torri (i palazzi), il monastero e le sue rovine, la chiesa e le fortificazioni, sibilava e ruotava su se stesso con un suono non identificato, del “Terzo tipo”, alieno, sulla” cittadella” del mito di Santa Croce teatro delle meraviglie; e tutti muti, fermi, con la testa in su, nel vederlo, affascinati per tanta potenza e forza che sprigionava, per tanto dinamismo, in alto, su, fino a solcarlo insieme lo spazio e viaggiare nei sogni che abitavano nel quartiere, per noi… Ju zirè. L’Aquila. Nello scantinato, nel basso del palazzo del civico 15 che dovrà essere abbattuto insieme ad altri, tra tante cose cadute dal terremoto, sparse, rubate e disperse ridotte in cumuli dal sisma, dove la concezione del tempo immutabile si può toccare, a terra, ho ritrovato Ju zirè e il bastone ancora legati da una corda per trattenerli insieme: un reperto, una sorta di archetipo dell’infanzia, un arcano oggetto della memoria e delle illusioni: due pezzi in legno, magici poi nel gioco di squadra che univa, aggregava e misurava le capacità dei ragazzi, legni lavorati con una passione che non costava nulla, dimenticati ma riemersi in quel suk della cantina. Non saprò mai che cosa hanno pensato le persone dentro il furgone, forse operai, che scendendo la chicane, la curva con quella serie di svolte in sequenza giù per il quartiere Santa Croce, vedendomi in quell’ambiente metafisico, sospeso, inanimato, battere a terra Ju zirè per alzarlo, colpirlo, come una sorta di lampada di Aladino che si risveglia ed esce il genio, e scaraventarlo lontano in quell’”Area a breve” così fu chiamata per la “Ricostruzione”, ma Striscia di Gaza, il quartiere sventrato prima e poi saccheggiato. Ju zirè quindi si è alzato, e ha iniziato il suo viaggio nello spazio e nel tempo, così mi piace pensare, come un drone sulla settecentesca chiesa di Santa Croce lavorata negli stipiti del portale e nelle finestre dai maestri scalpellini di Pescocostanzo, con il suo perimetro murario residuale del monastero trecentesco cistercense: ci costruirono sopra due enormi palazzi. Una meraviglia la struttura religiosa, presente nelle mappe antiche cinque-secentesche con facciata e torre campanaria, tra i più importanti complessi monasteriali della città, con la grande croce in pietra, gigliata, barocca sulla rampa dell’attuale via Roma ancora visibile. Più che un simbolo sulla facciata, la croce, un podestà dell’asse viario, che risale. Santa Croce, quindi, soffocata dai palazzi, ancora lì, nel tracciato dell’antemurale fortificato chiamato porta Barete. Poi in virata, il drone sulle mura: un ornato ricamato, non di pietre sovrapposte, ma di sfide, volontà di rendere al suo interno la grande bellezza, così concepita poiché nessuno potesse edificarvi intorno. Perché quel circuito murario potesse ”respirare” tra i campi e gli orti , dalla sua fondazione , dal XIII secolo, ininterrottamente, prima che a metà degli anni cinquanta del Novecento, e in quelli successivi fino al recente passato, capitolasse per sempre: un declino irreversibile ad opera di una urbanizzazione soffocante, lapidaria, predatoria in spregio al Genius loci, al luogo depositario della storia collettiva. Oggi sembra sfiancata, sempre più irriconoscibile, arresa la città, non più in grado di metabolizzare il suo passato per ripartire ed essere. I cittadini e le loro storie non costituiscono più valore.
Le mura urbiche. Tanto disprezzate e mortificate, dopo aver difeso gli aquilani nelle guerre leggendarie, protetto i quartieri e le case unite tra loro, tenuto insieme la comunità e il senso civico, appunto, di appartenenza di un tempo lontano, molto lontano, nel tratto murario di Santa Croce, quelle mura, nonostante tutto, nel terremoto del 2009, lacerate e gonfiate, ferite dalla pressione del suolo, hanno protetto i palazzi di calcestruzzo costruiti a ridosso, sul terrapieno: li hanno arginati, tenuti, evitando che cadessero come castelli di carta. Le mura, chiamate ancora dopo secoli di oblio a proteggere una nuova storia collettiva contemporanea, non certo nate per questo scopo, ma per la vita degli aquilani sì, almeno in questa parte della città.

Le immagini sono relative al quartiere Santa Croce, L’Aquila

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