Testo e fotografia Vincenzo Battista.
Dal tratto ferroviario alle pendici del borgo di Fontecchio, il treno, come nella pittura metafisica di Giorgio De Chirico, non ha né origine, né meta, ma solo un valore simbolico, vuoto il convoglio, nella sua solitudine imperscrutabile, sfila in questa Media valle dell’Aterno arcaica e sempre più spopolata, come se non avesse più niente da chiedere e dire… La mucca, “quando non c’erano i motori”, invece, precipitò alle pendici della valle Trinità che fronteggia Fontecchio, e non ebbe scampo. Il “re da Monte”, un personaggio che sembra uscito da un poema epico cavalleresco per questa e altre gesta che si narrano, caricò la bestia sulla cavalla Nina, e dopo diverse ore fu portata a Fontecchio, tagliata e disossata in piazza, la carne (per i contadini non era in “agenda”) – chi poteva mai vederla -. Fu offerta ai parenti e alla gente che si radunarono per capire che cosa fosse mai accaduto! Declassato a fenomenologia titanica, lo “scontro”, per usare un eufemismo, tra bestia (la mucca) e la natura matrigna, resta un enigma sullo sfondo della narrazione popolare, e c’è la presenza della Jana, un simbolo, oltreché ambito geografico così denominato “piana della Jana”, la zona contigua dove fu rinvenuta la mucca, tra l’altro sottostante all’insediamento delle Pagliare di Fontecchio. La Jana (dea vergine e madre primigenia) e Janara, è dunque il sinonimo di strega, dominatrice dell’occultismo che abita i nostri incubi, era una donna dotata dei poteri magici e somministrava malefici. Una strega che accompagnava alla “porta” del suo matriarcato, il passaggio, il varco nella logistica di un tempo parallelo a quello che si viveva nella grammatica dell’occulto, sospeso, magico e affascinante, misterico, nell’eredità delle sacerdotesse in un’era epica degli dei nella dottrina romana, ma questo accadeva molto, ma molto tempo prima nei piani del Sirente. La Janara è donna, dotata di poteri magici, conosceva le virtù curative e nutritive delle erbe in un satanismo stregonico, e qualcuno, guardando da Fontecchio la valle della Trinità, annuiva con il segno di croce pensando “all’ evento della mucca”, se mai non fosse entrato nell’almanacco del borgo di Pico Fonticulano come fatto taumaturgico, della Janara appunto, a futura memoria! Dalla ferrovia risaliamo la valle della Trinità sul fianco meridionale, una lunga incisione che frusta la montagna, lì dove osano le aquile. Inospitale, selvaggia, dalla vegetazione resa inestricabile, le impronte degli ungulati sono dappertutto, ma anche il passaggio dei lupi con le feci che rilasciano. Improvvisamente un branco di caprioli sopra di noi sfila rapidamente e svanisce. “Colle Caglie”: enormi macerine dello spietramento del suolo per bonificarlo (opere queste idrauliche a dir poco titaniche per lo sforzo collettivo dei contadini), mura a secco delimitano i terreni, e capanne in pietra per il ricovero. Intorno coltivazioni di patate, ceci, lenticchie, grano, cicerchie ed altro, ma sono un ricordo del paesaggio agrario delle alte terre. E poi le prime falesie in procinto, con l’erosione, di sgretolarsi e cadere, le torri carsiche e pinnacoli, l’habitat è sempre più pressato dalla vegetazione, gli enormi blocchi staccati dalle pareti di roccia e precipitati, le cavità che si susseguono continue delle pareti e i detriti rocciosi delle morene nei brecciai trasportati a valle del pendio, in un luogo, dove siamo diretti, che non è più una meta, ma una sorta di non conosciuto, un luogo che sembra l’ambientazione di una fiaba: un nuovo modo di vedere le cose con occhi diversi e un punto di osservazione che appare e svanisce, si modifica, repentinamente! Infine “Le Vauze del barone”, le grotte scavate, modellate, un dedalo di anse e insenature che si insinuano nella montagna dallo spirito della solitudine di un eremitismo che viveva nella libertà dell’atto, contemplativo, il più puro ed estremo. L’eremita: gettarsi oltre se stessi, nell’altrove…, essere delle lontananze… L’esistenza dell’eremita nella sua natura umana precede “l’assenza” che è la ricerca della perfezione. La forra calcarea è quasi un labirinto con l’acqua che percola dalle volte, e per raggiungere come detto le grotte, uno scenario dell’habitat irreale e sconosciuto con salti di roccia, cenge e passaggi a strapiombo sulla valle. Con i rastrellamenti nella Seconda guerra mondiale, le famiglie si rifugiavano nelle grotte, così come i briganti della banda Del Guzzo, nel 1806, trovavano rifugio per le scorribande nella valle e nel Sirente. E sopra le grotte, a qualche decina di metri, il nido di una coppia di aquile, irraggiungibile, con il suo enorme “cesto” di pezzi di legna trasportati lì, composti minuziosamente per proteggerlo, che sporge sulla cornice rocciosa e dalla nicchia calcarea avvolgente. Per chi è al vertice della piramide alimentare – il celebre rapace – la valle dell’Aterno è la dispensa, si nutre anche dei serpenti simbolo dell’oscurità, mentre l’aquila incarna il trionfo del bene sul male come nell’iconografia cristiana del simbolo di San Giovanni evangelista. Volteggia con le ali a geometria variabile l’aquila, evoca potenza, libertà, eleganza, dignità imperiale, scende ma non tocca il suolo per predare volpi, tassi, lepri, ungulati, faine e giovani agnelli nella solitudine che la rende regale e immortale, tutt’uno con la montagna che le appartiene.
Con noi, nella valle della Trinità, Primo Bendetti, Angelo Benedetti, Domenico Di Nardo. Si ringrazia per le immagini da loro realizzate nella giornata.
Foglio di Mappa – Fontecchio. Anno 1929 c.a. Archivio di Stato di L’Aquila.












































































