“L’incontro” tra le gobbe di Campo Imperatore.
Testo di Vincenzo Battista.
Campo Imperatore, in cammino verso l’enigma di un masso di pietra scolpito con lo stemma degli Aragonesi, alle pendici di monte Prena: un sigillo, un logo stipato in un sito particolare, identificativo della giurisdizione finanziaria nella gestione delle terre alte dell’Appennino, siamo intorno al 1447, per affermare il dominio dell’enorme economia armentizia in arrivo dal Tavoliere delle Puglie, in questo paesaggio di avvallamenti, depressioni del terreno e risalite sui rilievi delle gobbe erbose, tante conche che da lì, dalle piccole alture, si possono osservare, per poi ridiscendere al centro con questi fossi ondulati, dove la vista è chiusa, impedita come in un imbuto, ma solo per alcune decine di metri. Il territorio si presenta lunare, senza soluzione di continuità, ma poi accade, sì accade, quando di nuovo riprendo a camminare dalla quota delle piccole doline, avviene ” l’incontro”, davanti e me, a pochi passi. Forse il paesaggio nascosto in quella fossa ha creato un riparo, una sosta; forse il vento contrario che non fa fiutare il suo olfatto: non sono sottovento.
Forse lui è concentrato in qualcosa che annusa, ma che scoprirò dopo, più tardi. Ma adesso, le mie pulsazioni aumentano, si mescolano, i battiti accelerano, uno strano tremore si miscela all’ansia: resto così, bloccato, solo, senza difese, non ci sono alibi, forse stringo i pugni, il cervello inizia a viaggiare a velocità inaudita per cercare, sondare, come un motore di ricerca possibili uscite,” risoluzioni”; prova a resettare uno stato d’animo scomposto, ribelle, prova a cercare un programma non emotivo, ma invano, l’atmosfera dentro questo “adesso” non è possibile riassemblarla in un diagramma di battiti cardiaci che mi alzano su i picchi, sempre di più. Non mi resta che guardarlo, bloccato come sono, come un totem muto e silenzioso. Lo guardo, mi ricambia, ci guardiamo entrambi, fissi, io e lupo davanti a me, a una decina di metri, per un tempo che sembra un’ eternità. Ci guardiamo, i suoi occhi obliqui, neri, profondi nel muso allungato, le zampe lunghe, dallo spessore possenti piantate nel terreno, forse un maschio adulto: non si scompone , dovrebbe fuggire ma non ha fretta, non ha paura il lupo poiché viene dal Paleolitico (tra uno e due milioni di anni fa), e nel complesso rapporto con l’ uomo, chissà quante ne ha viste il lupo nel suo codice ereditario. Rimane lì, attimi ma molti di più, non so, ma tanti se riesco così, quasi a indagarlo nel colore del pelo folto, nel mantello con le sue sfumature di grigi, bruni e neri che si mescolano, e la sua testa e gli occhi centrali da predatore e le orecchie triangolari dritte come due antenne.
E‘ fermo, non si muove il lupo con la testa bassa, non digrigna i denti come ho letto da qualche parte e continua a tenere sotto il muso qualcosa, mi controlla nella sua calma, esattamente il rovescio della tempesta che mi scuote, ci continuiamo a fissare forse perché in me non vede una minaccia, poiché il suo software millenario rielabora rapidamente il suo equilibrio di predatore, il suo linguaggio genetico identificativo, forse per lui , sono solo un esile ostacolo a Campo Imperatore , adesso, facilmente da bypassare per il suo vero obiettivo nelle lunghe marce: il richiamo dei compagni, le mandrie al pascolo, i branchi di pecore, non molti distanti da noi. Ma poi, il colpo di scena per me, non per lui, non poteva essere altrimenti, il lupo si gira lentamente con la sua corporatura snella e robusta, gira la testa, muove le zampe e con un’ eleganza da Cavaliere con il suo blasonato coraggio da guerriero, mi dà le spalle, non trotta, non si gira nemmeno per allungare un ultimo sguardo su di me, non ne ha necessità, ma lentamente cammina sulle zolle erbose, risale la piccola dolina con un andamento curvilineo, lo vedo adesso sul rilievo con il controluce che lo inonda nella sua fiera magnificenza, come un fotogramma ( più tardi penserò a film Lady Hawke) sullo sfondo di Monte Prena, una quinta teatrale, il lupo scompare.
Io invece resto lì, mi siedo, scendo lo zaino, in pochi attimi tutto è ridiventato normale, si normale, penso, la “normalità” di quel San Franco, l’eremita di Assergi, che nel XII secolo chiedeva al lupo di restituire ai boscaioli il neonato che gli aveva sottratto: fu accontentato (affresco nella chiesa di Santa Maria Assunta); oppure il lupo scolpito nell’ambone della chiesa di Santa Maria Assunta a Bominaco, che afferra alla gola un giovane cervo; invece nel santuario della Madonna d’Appari a Paganica, in un bassorilievo in pietra, un lupo vuole entrare nel cerchio magico del simbolo della Trinità, fino a Carlo Ruther (sec. XVIII, nella grande tela della Basilica di Collemaggio), che dipinge Celestino V e il lupo mansueto nell’atto di porgere nella sua bocca il cibo. Messaggi subliminali, icone sulla pietra e della pittura, testimonianze di un mondo in perenna lotta tra il bene e il male, e lui, il lupo senza peccato, al centro della disputa, per secoli.
La fotografia è tratta da ok!Mugello.