Testo e fotografia Vincenzo Battista.
La nebbia e la pioggia fitta, sottile, rendono ancor di più il luogo misterico ed arcano, come se fosse discesa una coreografia, una ambientazione perfetta per inoltrarci nel ventre del bosco esoterico, iniziatico, mitico delle fate, apologhi e bestiari: riti magici nell’inconscio collettivo di chi lo attraversa, il bosco. Anche qui, in questo paesaggio montano di Lucoli, si ripetono così, a partire dai secoli passati, le storie leggendarie ed esemplari, forse a lieto fine. Privo di punti di riferimento, il bosco è un preciso adattamento, adesso che lo attraversiamo, con la nebbia densa, uno spazio – territorio vuoto senza orizzonti certi, ed è come se si entrasse in un tempo – altro, le certezze hanno il loro punto di caduta, ma su questo nulla è solo lo spirito, impalpabile, che ci guida, ed è quello che cerchiamo, lo spirito, che avvolge la montagna e sembra guardarci. Lo spirito del profondo, quindi, dove l’immaginazione sembra arrendersi di fronte a quello che tra poco osserveremo nel luogo di culto rupestre e primitivo, libero arbitrio di un uomo solitario (con le proprie tecnologie rudimentali quotidiane e lo vedremo nell’eremo di San Onofrio), cioè la soglia umana superata e le “divinità” della natura vigilanti, che sono entrambe il corollario, custodi di quella solitudine rupestre: fulmini, bufere, neve, gli animali e i predatori, le sorgenti d’acqua, il fuoco e il bosco. Tutto questo reso mansueto, domato infine, addolcito dall’eremita, sembra un ossimoro, nonostante sia la dimora dell’ignoto e della perdizione umana. Così nel Medioevo era considerata la foresta origine del male (l’eremita San Franco di Assergi nel bosco di Pizzo Cefalone vince la sfida e lo mitiga, chiede e ottiene dal lupo, custode della selva, la restituzione di un neonato ai suoi genitori boscaioli, così le fonti agiografiche nelle formelle pittoriche che rappresentano l’evento (chiesa di Santa Maria Assunta di Assergi). La sfida di un eremita, quindi, nel sentiero sempre più stretto, impervio, un orlo, senza ritorno, che mentalmente percorre nei suoi pensieri incomprensibili, per noi, oggi. La sua fede – editto oltre la pratica religiosa, portata in avanti fino allo strappo con la società partecipata, ormai distante. Per il pittore monaco celestino Ruthart, invece, nelle sue opere datate metà e fine Seicento, il soggetto che media natura – bestia –uomo è l’eremita Pietro del Morrone – poi papa Celestino V –, poiché nei grandi quadri dello stesso Ruthart, tele rappresentative della solitudine nel Morrone e Maiella, Pietro accoglie in un cenacolo le fiere davanti alla sua grotta – spelonca in una calma serafica, convive con esse e le ascolta, mansuete e private del male: il miracolo è reso mediatico per chi osserva le opere d’arte di una seduzione come la vedremo nell’arte della pittura Vedutista, preconizzata, da lì a pochi anni nel Settecento. Cosa diversa per altri eremiti della Conca aquilana come il Beato Bonanno (forra di Spedino) e il Beato Placido (monte Circolo), che avevano l’eccezionalità di eremi – grotte naturali, ma rese completamente inaccessibili alle genti del medioevo; insomma, quella loro solitudine era pura e dura, incontaminata. Con la nebbia e la pioggia fitta insistente, dal pianoro del casale Murri scendiamo nell’eremo (m.1351, il quadrante topografico è denominato S. Eramo) incassato in una falesia nella valle di San Onofrio che dà il nome allo stesso eremo (comune di Lucoli, forse il suo toponimo dal latino luculus, bosco), stretto e sinuoso il solco geologico della valle, coperto da faggete con l’eco del torrente che dal fondo valle emette un suono, un lamento costante, sembra, della montagna. Per arrivare al casale Murri, Iannini Elvira, allora, aveva circa 10 anni, negli anni ’30 del Novecento (era una consuetudine per i giovani partecipare al lavoro, aiutare), veniva issata sulla “varda” (sella) della mula, ai lati le bisacce dei viveri per i pastori (lardo, salsicce, pane, fagioli; mangiavano il pancotto i pastori con il pane secco, patate e cicoria selvatica) e dopo due ore e mezza, da Casavecchia (Lucoli) la mula portava la bambina a destinazione nel casale Murri, senza una sosta. L’animale sapeva dove passare, da Prata e Peschiolo, la valle di Raponaglia, passo forchetta Moretti, Tavernola e infine il casale con la mulattiera arrivava dritto a destinazione. Lungo il viaggio la montagna era fortemente antropizzata dai contadini e pastori, dalle coltivazioni delle terre alte con il grano, cicerchie e lenticchie, i casali bassi e schiacciati al suolo fronteggiati dai recinti a secco per gli armenti e i locali per la lavorazione del formaggio, le capanne a tholos rifugio stagionale in pietra, carbonaie per la legna, boscaioli, calcare per la produzione di calce. Adesso la grotta di San Onofrio, e ancora la nebbia e la pioggia fitta. La forma della grotta, plastica nel suo dilatarsi, con le anse che entrano nella montagna, un movimento della falesia che si spinge verso l’esterno, nel vallone di San Onofrio, e infine la copre nella sommità. Una sorta di “Arca” della memoria per una quantità di segni – messaggi che a noi restituisce. Custodisce un enigmatico domicilio di un uomo, la sua “tana” inviolabile -mentale, un eremita tra i lupi, gli orsi e le aquile, queste ultime ancora vive nell’epistolario di Lucoli, in particolar nei racconti a Casavecchia, quando con gli artigli l’aquila ( il nido su uno scoglio calcareo della valle di San Onofrio ) predava gli agnelli, li alzava in quota poi precipitati per, infine, cibo nel nido degli aquilotti (Teofilo Pattini, pittore della fine dell’Ottocento, dipinge la tela “l’aquila”, formato sette metri per circa quattro, pronta a piombare su un gregge e a ghermire), che è quindi, quella pittura, non un’allegoria ad effetto, anzi, verità, realtà, proviamo ad immaginarla. La falesia della grotta, la sua dimensione religiosa, ci siamo dentro.
Non si possono escludere pellegrinaggi solitari nella grotta di San Onofrio, forse con il rito dell’abluzione rituale dell’acqua, lavare il corpo, purificarlo e berla per allontanare le malattie, poi il contatto con le pareti, la roccia che viene toccata. In qualsiasi altro luogo eremitico conosciuto per queste condizioni, l’acqua e la pietra hanno una peculiarità (ancora oggi in alcuni siti devozionali in Abruzzo) sulle guarigioni, riconosciute dalla devozione popolare che ne è custode. L’intercessione e la memoria dell’eremita, quindi, – proviamo a pensare – con le mani che raccolgono l’acqua nella vasca appoggiata alla parte dell’eremo di San Onofrio, scavata nella roccia, e la stessa acqua che in precedenza filtra dalle rocce, scivola dalle pareti della grotta e condotta, infine, lì nella vasca con un canale, lo stesso di adduzione scavato nella pietra. Ma tutto il complesso dell’eremo è un progetto idraulico, sull’acqua, una sapiente conoscenza del luogo, la cavità viene “ordinata”, resa luogo di culto dentro un principio ispiratore, un progetto mentale, sì, dei canali di scolo scalpellati, ma anche subliminale per il senso che trasmette il rito propiziatorio sulla memoria dell’eremita, poiché tutto nella spelonca restituisce un lungo racconto secolare… L’acqua quindi è “verità”, recuperata, viaggia alla base della falesia, supera i tre livelli ( quote ) della cavità, tre ambienti in tre superfici lisciate, anch’essi resi piani dal lavoro incessante dello scalpello. Poi un podio di fondazione centrale alzato sulla roccia, con i gradini di accesso e uno che fungeva forse da inginocchiatoio. Lo stesso podio poteva ospitare un altare in legno. Quattro fori scavati, su un piano dell’eremo, nella roccia, alloggiavano i pali di faggio armati ai lati con frasche e una copertura con gli stessi pali: un rifugio, proprio all’interno dell’eremo per contrastare le bufere, i venti impetuosi, la pioggia spinta fin lì dentro, e gli animali attirati dal fuoco e dalla carne. Un cordolo in pietra infine, alzato, protegge l’eremo sul lato esposto nella valle, lo fronteggia e, inciso nella roccia, alla sommità, un solco per ospitare paratie protettive. Con un reticolo di tronchi e frasche di faggio, i due accessi, impervi, nell’estremità dell’eremo, venivano anche sbarrati. L’eremo di San Onofrio infine, un luogo del destino, un luogo dove un uomo è andato incontro alla sua storia personale, senza girarsi…
Un particolare ringraziamento a Francesco Fiorenza.





































































