L’oro rosso negli altopiani aquilani dell’Istituto Luce.

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

La manopola dello starter della moviola ha appena acceso i primi fotogrammi in bianco e nero di “quell’ago nel pagliaio” che finalmente, dopo molti tentativi, siamo riusciti a trovare all’Istituto Luce S.p.a. di Roma, emerso da una cineteca imponente sfuggita in parte ai bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale, ancora tutta da inventariare ed aggiornare, ci dicono. Anno XV° dell’Era Fascista, ” numero 1055″. È scritto nella “pizza”, ma le immagini che scorrono sono precedenti, forse datate intorno agli anni ’30, poiché solo dal 1932 è subentrato il sonoro nei cinegiornali Luce, passato allora alle dipendenze del Ministero della cultura popolare “per la propaganda politica e la diffusione della cultura attraverso la cinematografia”, e poi perché qualche bambino, scopriremo dopo, è stato riconosciuto e oggi viene ricordato da qualche parte dell’altopiano di Navelli. ” La coltivazione dello zafferano”: così titola il documentario Luce che in dodici minuti e trenta secondi trascina le eccezionali immagini filmate e montate con grande maestria, di un altopiano di Navelli con i paesi e la lunga strada brecciata percorsa dai carri (si scorge San Pio delle Camere e la chiesa di Madonna Centurelli) e il suo carico di contadini ” al canto delle campagne d’Abruzzo, con la letizia nel cuor”, è scritto in uno dei molti quadri didascalici che appaiono nel filmato. Sicuramente sortì gli effetti la campagna autarchica dello zafferano che le pretese fasciste volevano elevare a simbolo e predominio rispetto ad altri impianti colturali. In parte vi riuscì. Con l’istituzione del Consorzio dell’Aquila , in quegli anni del documentario appunto, e l’ammasso obbligatorio si portò lo zafferano a raddoppiare la produzione, stimata intorno ai 3O quintali, ma molto lontano rispetto alle raccolte di fine Ottocento. Le immagini continuano a scorrere: Civitaretenga, San Pio delle Camere, i campi coltivati a zafferano, i contadini chini nella raccolta del fiore: l’oro rosso dei braccianti “sognato” e posseduto per poco tempo, che i fotogrammi in bianco e nero del documentario insistono a riprendere, ad evidenziare in un’alba dalla densa foschia che sembra proprio assomigliare a questa dove li aspetto nei pressi del borgo di Caporciano, monocromatica, senza colore, avvolta com’è dalla nebbia, e forse senza tempo come lo zafferano: ” Erano tre faccende in quillli tempi da fare, et tucte necessarie, che non se poteano innutiare, de vennegnare le vigne, pistare et recare, sfiorare la soffrana, arate et seminare” narrava Buccio di Ranallo intorno al 1360. Una coltivazione che non è mai cambiata nel corso dei secoli nel lavoro materiale di “sfioratura”, di preparazione ed essiccazione degli stimmi e nelle inalterate forme di conservazione, diventando per i contadini quasi un prodotto di culto, prima di conferirlo nelle mani dei grossisti. I raccoglitori di zafferano arrivano. Dentro il campo di zafferano, che si riconosce da una costruzione geometrica particolare di strisce di camminamento e le aiuole a quattro “impianti”, entrano. Iniziano a raccogliere il fiore campanulato che all’interno contiene la preziosa spezia, in fretta, gettando di tanto in tanto un’occhiata alla luce del sole che intanto si è alzato: se forasse la coltre biancastra, distruggerebbe la fioritura. Torneranno domani, e poi ancora, con gli stessi antichi gesti e gli oggetti di sempre, per la raccolta, i cesti di vimini costruiti dagli anziani, fino a quando i bulbi, sotto la terra, in una mutazione botanica che impressionò anche Ovidio nelle “Metamorfosi”, smetteranno di spingere su il fiore, i getti floreali, in questo divenuto sempre più un solitario, antico rito, della terra degli altopiani aquilani e dei suoi miti letterari molto vicini a noi.