L’ultimo dei mulattieri nel massiccio del Sirente.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

Il mito che insegue se stesso, senza tregua e senza tempo, per raccontarsi, ci viene incontro: la montagna è il mito, più antico, madre genitrice governa e protegge, ma se sai entrare dentro il suo ventre forse puoi dialogare con il suo vocabolario sterminato. Chissà quante volte se lo sarà detto, alzando gli occhi sul grande bosco della montagna del Sirente, Antonio Santilli, l’ultimo mulattiere, scomparso recentemente all’età di 89 anni. “La fedeltà alle forme economiche e sociali – degli uomini scriveva Ignazio Silone nel 1948 – la loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi: la natura”. La natura e la fedeltà dell’’ultimo mulattiere nello spirito, siloniano, dunque, in quello sterminato bosco di migliaia di ettari di faggio dove vivono gli eletti delle cime che non troveremo mai nelle antologie, e poi si rincorrono nelle leggende di fantasmi buoni della montagna appartenuta agli antenati: nei boschi non trovano pace e vagano, non potrai mai incontrarli, ma quelle creature ti vedono e proteggono, in quella foresta che si anima e si allunga con le sue dita affusolate fino a sfiorare il borgo di Secinaro, frontiera sospesa, l’ultimo avamposto conosciuto prima della selva. Con il padre, una generazione di mulattieri e tagliatori, come un elfo, il giovane Antonio, da solo con gli animali tagliava la legna, caricava i muli, la trasportava. Nove anni. Alle quattro di mattina, anche con la tempesta d’acqua, dentro il bosco a cavallo dei muli che guidava, 10 – 11 ore di lavoro senza distinzione d’età. Il taglio dei faggi autorizzato e il trasporto fino a Secinaro con gli animali nelle rue, nelle vie cordonate che salgono nel paese dove era impossibile altrimenti arrivare, quasi diventato il borgo tutt’uno con “ Le Montagna incantate” del registra Michelangelo Antonioni: quinte delle case in pietra, porte e facciate, selciati assunti a dipinti, ricordi di paesaggi visionari, fotogrammi, sequenze. E se nevicava, comunque, si doveva partire per il bosco, alla ricerca dei faggi spaccati dalle valanghe a Valle Lupara, Fosso del Cavallo, Valle Pretosa fino giù “all’imposta” deposito della legna. Quattro ore di viaggio per caricare due quintali di legna ogni mulo a cui veniva appoggiata la giacca sugli occhi per non distrarli, e i tronchi ai lati del basto. Poi lungo il sentiero del bosco, i rami sporgenti mentre si cavalcavano gli animali, tagliati a forcella come degli appendiabiti, ma lì venivano appoggiate le borracce con l’acqua: stazioni di rifornimento fisse, “poste” lungo il tracciato della montagna. E se i veterinari non potevano arrivare, ci pensava lui a curare gli animali, e anche a ferrarli, sostituendosi al maniscalco. Tutti i muli avevano un nome, un carattere e un comportamento ognuno differente dall’altro, per chiamarli, tanto che Antonio poteva organizzare la carovana e i viaggi in montagna in base al coraggio e alla determinazione. Tutto questo può apparire bizzarro, ma il pittore Pisanello grande interprete del primo Rinascimento italiano disegna a inchiostro e matita i muli in una serie di tavole, finemente rappresentati, quasi umanizzati, quasi maniacali nei tratti dello stilo e nella ricerca della perfezione e nelle loro espressioni, quasi fossero stati messi in una sala di posa, tanto importanti nel trasporto di uomini e cose. Il Sirente, il massiccio, il suo corpo dolomitico alto e poderoso, le cosce come le brecciare dei valloni, i grandi seni che si alzano con i boschi a nord della barriera, materia viva la montagna, rivela, se la sai ascoltare nelle alleanze, nei patti non scritti, nel rispetto, si alza e si eleva, sempre, la montagna, anche quando questa sembra precipitata nell’inferno dantesco: così Botticelli (Rinascimento) in una sua illustrazione tratta da un manoscritto (presente nella mostra di Forlì su Dante) la dipinge, ma risale infine nel cielo dagli inferi, ascende al paradiso con l’uomo in un ossequio rivolto a lei, ma se la sai “ascoltare” la montagna, come Santilli, che ha guadagnato quel luogo, con le sue solitudini, ci piace pensare. Infine, le immagini in bianco e nero tratte del libro “La via dei carrettieri”, non a colori, quindi, questa “fotografia” sul campo, per non distrarsi ed elevare il dato visivo e la riflessione su quelle atmosfere irripetibili.Note.Un particolare ringraziamento a Luigino Barbati, Mario e Sandro e ai fratelli Roberto e Vitaliano Santilli.Luigino Barbati, imprenditore della ristorazione, incarna lo spirito dei luoghi e la cultura di Secinaro.