I mulini della Conca aquilana. Solo le palpebre degli occhi conserveranno il colore originario…

Testo e fotografia di Vincenzo Battista.

Premessa.

Il viaggio nella Conca aquilana intorno ai valori dell’acqua. Oltre 100 sono i ” monumenti del fiume” o meglio l’archeologia industriale dei mulini (alcuni datati intorno al XVI sec. ancora integri e funzionanti), che convogliano l’acqua dentro i lunghi canali scavati spesso dagli stessi “molinari”, e poi fino al mulino, con un ingegno idraulico e una sapiente conoscenza dei fattori naturali (allora non si parlava di impatto ambientale), lungo tutta l’asta fluviale fino all’Adriatico, in luoghi strategici per l’economia contadina dove la cultura materiale, i racconti autobiografici e i documenti archivistici dell’Archivio di Stato dell’Aquila, determinavano lo scenario delle genti e del fiume Aterno.

 

I nomi, i luoghi e i significati della via d’acqua.

 

“Chiusa, ” scerto”, ” raffota” sono gli indizi, inequivocabili, che intorno a quelle descrizioni dei “rustici”, “terre”, “sodo” e “cannapine” dalle rendite di ducati, tarì e grana, riconducono alle macchine a motrice idraulica: i “molini”. Il paesaggio fluviale del fiume Aterno e dei suoi affluenti era così identificato e censito nei documenti degli antichi catasti onciari e preonciari conservati oggi nell’Archivio di Stato dell’Aquila: ” Sodo alle Grottiese del mulino” è scritto in una nota nel catasto del XVI sec. di Camarda, alle pendici del Gran Sasso, intestato a un certo “Piemaro allo Molino”, una località allora nota e conosciuta dai locali anche per la realizzazione di materassi con piuma d’oca o gallina. Invece, ” l’acqua sette anni cresce e sette anni cala” era il detto, poiché individuava la “raffota” (si continuerà a chiamare così) del mulino di Acqua Oria, ubicato in una depressione del fiume Aterno, davanti colle Caliglio e l’abitato di San Vittorino, periferia ovest dell’Aquila. Un lungo canale raccoglie ancora oggi l’acqua dalla “chiusa” del fiume Aterno e dopo centinaia di metri la deposita nella “raffota”, il bacino, davanti all’edificio rurale. Al settimo anno bisognava lasciare il mulino e abbandonare quel mestiere: ” Lo dicevano anche gli antenati, la natura voleva così”- raccontava Giulio Lorenzetti, il mugnaio di Acqua 0ria, e dopo sette anni si riprendevano a macinare i cereali in quel misterioso ciclo imprevedibile della natura mitologica, di quell’acqua preziosa che si poteva bere, non conosce frontiere , gira le coppie di macine, alza la polvere della farina e scuote l’edificio del mulino in pietra; e poi le vie d’acqua che dal bacino della “raffota” precipitano sotto il piano dell’edificio, muovono le pale del “retrecine” in legno di castagno, ruotano nel gettito dall’acqua, e infine, determinano il movimento delle macine e quindi la frantumazione del grano, al piano superiore: una magia. Solo le palpebre degli occhi, alla fine, conserveranno il colore originario, in quel nugolo di polvere, in quella nebbia misteriosa cara alla dea Demetra (gli Imperatori venivano incoronati da spighe di grano), che ha avvolto il locale del mulino, mentre fotografiamo, prendiamo appunti, effettuiamo rilievi metrici e disegni per capire questo ingegno umano, per capire questa “macchina” della meraviglia che trasforma grano, granturco e farro in farine, mentre mago Merlino, il mugnaio, che discende dalla più antica attività dell’uomo, un ombra metafisica questa, si aggira nel suo laboratorio di alchimie e  stupore, apre le canalette, regola e “ascolta” le macine, versa il grano e lo benedice con un segno di croce, controlla infine la farina in uscita nel cassone in legno di noce ultimo atto, nel locale bianco ovattato, che oramai si può tagliare a fette. Quando usciamo, fuori dal mulino, insieme ai miei compagni, assomigliamo a una sorta di Vestali vestite di bianco. Le persone che attendono il turno per macinare il loro grano ci guardano, ci scrutano e ci seguono con gli occhi pieni d’interrogativi, mentre raggiungiamo il fiume Aterno (i latini lo chiamavano Aternum, Aterno sanguinoso narra la leggenda, scorreva ai margini di Amiterno antica città italica fondata dai Sabini), e lì, ci immergiamo nell’acqua per lavare la polvere bianca della farina come in un rito di purificazione: ma questo accadeva alcuni decenni fa. Gli anziani proprietari, invece, continua il racconto, avevano il mulino di Acqua Oria, le terre e anche i diritti sui due canali: quello che porta l’acqua al mulino e quello che la riporta al fiume, un casale e cento coppe di terra che davano in affitto ai contadini; per costruire i canali avevano portato via i campi a chi li lavorava. Nessuno parlava, i proprietari erano molto rispettati e temuti per il titolo che avevano, erano nobili, baroni e distribuivano le terre.  Per l’affitto del mulino si restituivano 24 salme di grano l’anno, la salma equivale a circa 130 chili. Il padrone non voleva fare trebbiare sull’aia i contadini – raccontano; non voleva il rumore perché si svegliavano i nipoti e perché si sporcava l’acqua del pozzo… nelle lotte contadine, per affrancarsi dalle condizioni sociali, che oggi ricordiamo, in questo racconto, con un amaro sorriso.

 

 

 

Nota.

Nell’occupazione tedesca dell’aquilano nel 1943, le forze armate tedesche della  Wehrmacht requisirono il mulino di Acqua Oria per la rimessa dei cavalli, bruciarono per rappresaglia il telaio per la tessitura delle donne e gli utensili di legno utilizzati per smontare le macine, e portarono via la farina. Alcuni sacchi, con la croce uncinata, dopo molti decenni, sono stati ancora utilizzati dal mulino.

 

Le immagini.

Il mulino di Acqua Oria, le mappe, i rilievi metrici, i disegni, Lorenzetti disegna sul pavimento del mulino la meccanica idraulica, il sacco di farina della  Wehrmacht, il fiume Aterno, stampa Mola acquaria (Museo Galileo). I rilievi metrici e i disegni di Duilio Chilante e aiuti del mulino di Acqua Oria, mappa storica dei popoli antichi (Wikipedia), città romana di Amiternum (Wikipedia).