Oltre le mura la battaglia. Anno Domini 1424”. Rappresentazione teatrale. Un’idea per la città.
Libero adattamento di Vincenzo Battista.
PROLOGO
(L’attore, trafelato, si muove carponi come un giaguaro, esce e scende dalla collina, ansimante, e infine, si ferma davanti al pubblico. Inizia la recitazione).
Sono entrato finalmente, da Porta Branconio, sono riuscito a superare le mura, io, pensate, un saltimbanco, un giullare, un cantastorie ho beffato le milizie di Fortebraccio da Montone, i cavalieri mercenari che su e giù galoppano fuori le mura, e assediano la città. Ma prima ho strisciato nel fango del Contado, dentro i fossi, mi sono nascosto tra i rovi e poi infine sono arrivato, arrampicandomi sopra la rupe, fin sotto le mura, davanti Porta Branconio. Da sopra una torre, mi hanno visto gli armigeri della città si Aquila. Li ho implorati, da fuori la porta, li ho scongiurati di farmi entrare, ma loro ridevano, si prendevano beffa di me. “Sarai impalato” dicevano “scorticato a sangue” aggiungevano “da Fortebraccio, e dai suoi aguzzini, sarai tagliato a fette”, sghignazzavano.
Poi, mi sono seduto, davanti alla grande porta Branconio, solo con la mia disperazione aspettando la mia fine. Ma, improvvisamente, la porta si è aperta, sono usciti due soldati con le armature, mi hanno sollevato da terra, mi hanno preso per una gamba, e trascinato come un animale, dentro le mura, ero però salvo.
“Tanto non paga la tassa d’ingresso in città, è un giullare”, dicevano tra loro le guardie.
Per ricompensarli di quel gesto, che mi aveva salvato la vita, ho detto ai soldati che avevo visto un gruppo di donne nude con i bambini, che da castello di Barisciano, si erano mosse, in cammino, verso la città di Aquila. Fortebraccio da Montone, con quel gesto, dopo aver preso ed espugnato il castello di Barisciano, ho continuato così a parlare ai soldati, poiché vuole umiliare gli Aquilani, intimorirli, e disprezzarli, destare orrore e ira, prima di espugnare la città di Aquila con il suo esercito.
Loro, si sono messi a ridere,” sei un giullare, un idiota, non vali nulla”, mi hanno detto, mentre mi spintonavano, mi prendevano a calci e con la punta delle lance dietro la schiena, mi allontanavano. “Vai in città” infine hanno concluso i soldati” trovati una stalla e dormi con i tuoi amici animali”.
(Temporalmente cambiano le modalità del racconto. L’attore deve fare una pausa, cambiare “tempo” e scenario. Magari con le musiche. Si apre un altro tempo del racconto. L’attore si lascia il passato alle spalle, per un nuovo inizio del racconto).
È trascorso molto tempo da allora, ho visto cose inenarrabili, ma adesso sono qui, adesso davanti a voi, io, un giullare, un cantastorie, giro per i borghi, i castelli, e nelle piazze racconto le storie. Adesso vi racconto una storia, la vostra, una cronaca, mi sembra di capire, di armi e cavalieri, di pulzelle e duelli, di amori e passioni, di madri e bambini, è di una città antica, Aquila, che visse da tempo immemorabile con terremoti e calamità, ma fu ricostruita, con la sua angoscia, il suo orgoglio, le sue tante lacrime, sparse, che hanno bagnato il suo tempo. E dalle lacrime, è rinata, fiera, più bella che mai. La vostra città, poiché, voi, siete la città, adesso, voi. Siete anche questo…lo spirito… in questo tempo…
Ma voi siete anche questo, se poggiate l’orecchio per terra (l’attore poggia la testa a terra, con l’orecchio, ascolta), potete sentire i vostri antenati, riconoscere la vostra stirpe, potete sentire le loro parole, che risalgono dalla terra, ascoltatele, riemergono. Voi, siete. Voi, nel dolore e nella speranza, prestate attenzione alle voci che si alzano dal sacro suolo aquilano, e sentite le tante invocazioni, il rumore delle armature, le urla di disperazione e poi di gioia che dal sottosuolo riemergono, custodite dentro queste mura, voi, siete parte della storia nella guerra combattuta all’ Aquila, voi, tra Braccio da Montone e l’esercito di Giovanna II alleato con le genti aquilane.
Braccio, voleva espugnare l’Aquila, ultima roccaforte, per creare un grande Stato Signorile nell’Italia centrale. Una guerra cui guardava con timore tutta la penisola italiana, vedeva schierati i capitani di ventura, d’arme, e i mercenari dell’Italia quattrocentesca, con oltre 15.000 soldati. La battaglia fu delle più sanguinose, l’evento bellico per eccellenza di quel periodo in Europa, la più cruenta della storia Italiana. Ci furono tremila morti, e migliaia e migliaia di feriti. Ma la città non fu distrutta.
L’Aquila quindi, vincitrice e padrona della sua libertà, il 2 giugno 1424, tanto che nelle piazze italiane, noi cantastorie, in ottave rime, declamavamo in volgare, portavamo in giro l’orgoglio degli aquilani, le emozioni della lotta e della vittoria, dopo molti mesi di assedio della città, per opera del condottiero Braccio da Montone e del suo immenso esercito, in fine sconfitto. Portavamo nelle piazze la suggestione, che non si cancellerà mai, che ancora rimane, di una coscienza civile, destinata ad incidere nell’orgoglio degli aquilani, “tanto fo lo sangue de li homini morti, et cavalli morti, et feriti che lo sangue correa a modo de fiomana, che tutto foro presi et morti”, sì, il sangue, che lavava l’onore dei vincitori…… Oltre le mura la battaglia, nell’Anno domini 1424.
Correa anni millequattrocento
E vintitrè come se rasciona
Secundo come trovo el vero sento
Signuri grandi, e minuti intendeteme
Di canto nuovo, e di battaglie autentiche,
Ch’io so ben certo poscia legereteme
Gran allegrezze conven, che vi tentiche,
Per le battaglie, como intendereteme,
Deh nota li gran fatti, e non ti smentische;
Non fu venduta si aspera guerra,
E lo restone, che fe’ una gran Terra.
Gli eserciti sono schierati, per la battaglia nella piana di Bazzano, sotto le mura della città di Aquila. Da tempo immemorabile, la battaglia, si è svolta sempre così, con gli squadroni, in linea, che si scontrano a ondate, il primo contro lo schieramento avversario, e poi il secondo, il terzo squadrone, a ondate successive. È questa la concezione della tenzone medievale, la battaglia, come duello, il giudizio di Dio, Dio lo vuole. La battaglia frontale, senza esclusione di colpi, si vince o si perde. Gli eserciti arrivavano anche a scegliere il campo sella resa dei conti, il luogo, e il giorno dello scontro.
Calaro tutte le squatre nel piano,
Come la sponza quando che và a Santi,
L’una dall’altra non troppo lontana,
E veniano ordinati tutti quanti
Stritti inserrati con le lancie a mano;
Ora tornamo alle squatre denanti
Lodovico Colonna, e Minicuccìo,
Che impicciaro la guerra in gran corruccio.
Deh non pensate vui che l’autra gente
De queste squatre stessiro a dormire;
Calaro lancie, e di spade pungente
Non finiva l’un l’altro di colpire,
E lo Todisco stringendo li denti
Spezzò la lancia allor senza mentire;
Minicuccìo, e fratel le ler rompea
Presto le mani alli stocchi mettea.
Ora è battaglia. Polvere, armature, cavalli a terra dilaniati dalle lance, il sangue che diventa un tappeto rosso, le squadre lottano, le armature si infrangono sotto i colpi delle pesanti spade. Le squadre lottano, unite, compatte, una stretta all’altra, quasi a formare una corazza, in pochissimo spazio. Intorno a loro urla, gemiti, corpi sventrati. Si combatte da diverse ore, quando i bracchesi sembrano prendere il sopravvento, costringono le milizie alleate con Aquila, a ritirarsi oltre il fiume Aterno, fino a schiacciarli sotto il monte di Roio. La forza della disperazione allora spinse le milizie aquilane, poche per la verità, a una reazione disperata, inaspettata, tanto che i bracceschi, la loro cavalleria, fu colta di sorpresa, fino a retrocedere, quando i fanti infilzarono i cavalli, nel ventre, e questi caddero, uno dietro l’altro. Che spettacolo atroce di morte.
Signuri; in quella intrata dellu campu
Onne Aquilano gridava sì forte:
Fora Braccischi, alla morte, alla morte;
Spandeanose le voci come un vampu,
Le genti d’arme, ch’era ardite, e scorte;
Chelli Braccischi ne fecero sconforti,
Dicenno: oimè tutti sarremo morti.
Signuri in questo fo una granne stretta,
Mai lengua nulla lo porria contare,
Homini, e caval per terra se getta,
Ben mille lance ad un colpo spezzare,
Non fa misteri di sonar trombetta,
Che non se ode, se non che martellare;
Nullo de loro certo se ne infegne
Gridando sempre: alle cegne, alle cegne.
Ma che cosa era accaduto poco prima della battaglia, quali erano state le strategie. La città di Aquila doveva essere isolata dai Castelli, che furono espugnati, abbattuti, ridotti in macerie. Nella conca aquilana i torrioni e le guarnigioni furono rasi al suolo. La gente dispersa si rifugiò nelle grotte, gli uomini infilzati dalle balestre e le bombarde massacrarono e distrussero le torri di avvistamento sparse nel Contado.
Da parte d’Amiterno e Montreale,
E Civita Ducale e l’Amatrice,
E Lionessa, come che si dice,
E L’Aquila d’Abruzzo naturale,
Dio la mantenga in istato felice,
È de Corona, ed è de demanio,
A liberate mette il Capitanio.
Andò alluPoggio lui orno che vende
E prestamente lu campo li mise
Con le pumarde a ferire li prende
Guastò un torrone et un huomo occise
Alli dui di lu Poggio non si tende
Li contadini in mani se gli mise
Mandò a Santo Demetrio e non restette
Quilli villano a prima se li dette
E prese Fossa e prese Santo Sano
In quillu medesimo iurno veraniente
Poi se n’andò a campu a Barisciano
Et quattro iurni stette el dir non mente
Forniti quattro iorni per certano
Allo voler de Braccio ogn’un consente
Leporanica in via se gli dè a lui
Fagnano si arrendeo ad iurni dui.
Poi si andò al Campo ad Estiffa
Con tutte le pumbarde e balestreri
Le prete dalla torre tutte sbiffa
Non ci è chi della Torre sia penseri
Perché dentro era una compagnia niffa
Antonuccio de Simone presto e fieri
E beffe se ne fe di tutti li atti
Come restesse se dette alli fatti.
Un grande condottiero, Niccolò Guerriero Piccinino, imparentato con Braccio, aveva avuto l’ordine di porre le sue milizie tra le mura della città di Aquila e il campo di battaglia, per impedire agli aquilani di congiungersi con le forze della Lega, loro alleate, venute in soccorso della città. Davanti porta Bazzano, si mise il condottiero, si posizionò, davanti alla porta del Campo, dove il sentiero correva giù, e si perdeva nella pianura, con Bagno e Monticchio di fronte.
Rotelle e lancie longhe e balestreri
Erano li Aquilani alli steccati
Li fanti a pede e Braccio molto feri
Si mosse in punto con targuni armati
Di tutte l’armi che faccia mestieri
Li uni inver l’altri se sone assaltati
Per li cavalli che sento a fatto
Misero in terra un poco di sticcato.
Gridava forte li nostri Aquilani:
Alla morte, alla morte, carne, carne;
Oggi verrete nelle nostre mani,
Nisciuno di vui non porrà campare;
Appresso a loro non era lontani,
Or chi vedesse valestre carcarne!
Le lancie longhe tutti arditi ed atti:
Oggi vi pagarrem de vostri fatti.
La battaglia si fa più cruenta, più sanguinosa. La vendetta fu un’arma invincibile, dopo tredici mesi di assedio, gli aquilani, uscirono dalle mura, l’ira era esplosa il giorno tanto atteso era arrivato, per riscattare le donne e i bambini dalla sofferenza inflitta loro, dalla carestia e dalle privazioni oramai non più sopportabili. Ci fu un momento, che i soldati bracceschi mercenari, indeboliti, videro da una collina scendere gente d’arme aquilana con tante donne, dietro la basilica di Collemaggio. I bracceschi ebbero paura per la loro sorte, perché piuttosto si uccideva il nemico, che farlo prigioniero. Cosi fecero gli aquilani.
Questa fò la battaglia che li prese;
Vidi fermezze de buon contadini
Che fare se ne vorriano le tese
Più che se fussero cani o Sarracini,
Braccio camina via senza contese
All’Aquila jongendo in sul confini
Un campo in Collemaggio presto para
E l’altro mise sopra alle renara.
Signuri quando el gran campo assembrose
Tutta Aquila a trimore se disserra,
Ogn’uno che potea arme presto armose
E preti e frati che erano nella Terra,
La gran campana ad martellu sonose
Con tutte le campane ad arme afferra
Si fortemente sonava ad martellu
Che veramente parìa mongibellu.
I bracceschi, le milizie armate sotto le mura, furono presi dal panico, scambiarono per gente d’arme, le tante donne, che erano uscite dalle mura aquilane. Volevano, le donne, vedere la vendetta dei loro uomini sulle truppe di Fortebraccio da Montone. Antonuccio Camponeschi, prode aquilano e condottiero, si mire alla testa delle milizie, quando queste sferrarono l’attacco contro gli uomini di Braccio, facendo uso di balestre, di lance e di ronche “Essi si mossero con tanto animo, e vigore, e ardire, che pareano al mondo dovere vencere”.
Era il signore Antonuccio il persona
A Pede con infiniti cittadini,
Balestra e sassi recependo e dona
Lancie e de spadi tenendo el confini.
Alla morte, alla morte ogn’un resona
E commatteano como paladini,
Li culpi che se mena non vanno in falli
Alquanti foso guastati de bon cavalli.
La battaglia è al suo punto più alto, diventa terribile, per il frastuono delle armi, di ferro, che si scontrano, le armature che sbattono nei duelli, il tonfo rumore dei cavalli che si urtano, il continuo percuotere delle aste che si spezzano, tra la polvere, l’acqua del fiume Aterno, e la campagna allagata. I cavalli piombano nella melma, e alzano onde di fango e detriti. Le punte delle lance volano in alto, i corpi dei cavalli si scontrano all’arma bianca, gli elmi si spaccano, il sangue scorre sopra le armature lucenti, e scivola sull’acqua, del fiume, che diventa di color rosso, che diventa un tappeto di morte, di urla e di dolore, straziante. In aria si vedono volare matasse infuocate, lanciate dalle catapulte e dalle balestre, ardenti, di sostanze bituminose, accese prima del lancio, e poi, cadono sopra i corpi dei guerrieri infuocati, che gridano alla loro disperazione. Sul terreno rotolano i corpi dei cavalli sbalzati da cavallo con addosso il fuoco avvolgente, delle palle incendiarie. I cavalieri si rotolano a terra, arsi vivi, cercano tra la terra e la melma di fermare il fuoco che li divora.
Quale lengua sarria tanto ardita
Punto per punto potesse contare !
L’uni in ver l’altri mettono lor vita;
Deb chi vedesse le lancie spezzare.
Quanti cavalli facevano finita!
Molti cadean che non si po’ rizzare;
Non fa mistieri sonar di trombetta
Per multi culpi, che si danno in fretta.
Nel campo de Vazano ben quattrocentu
de quil de Braccio se ferma al terrinu,
e comatteano con grande ardimentu;
el bonu Aluisci de San Severinu
colla sua gente lui non ha paventu,
erano flischi, ognun paladinu,
sì forte arditi che ‘sscia della maneca:
rupperoli e incalsaroli fi’ a Paganeca.
E li aquilan li sequia scì forti,
guai per colloro che vi foru iunti,
multi ne foru da Bazzanu morti, chi raspetta lo sa che lli ha cunti.
<<Non camparete ogi, o cani scorti!>>.
Per fì in Paganica tutti arditi e prunti;
e multi del distreri dismontaru
e per pagura in fussi se gettaru.
“La desconfitta di Fortebraccio da Montone e del suo esercito, loro fò al venerdì a hore quasi 16 e dui del mese de giugno 1424”. La battaglia ebbe termine a mezzogiorno, dopo che era iniziata alle cinque di mattina. Durò più di sette ore.
Et ly Aquilany torna con victoria,
Fact’à mendecta e à venta la guerra;
Homyny e donde ne sentìa gran gloria,
Picciuly e grandi fa festa na terra….
Gran festa ne fò facta e de danzare
Con tante gioghe, nol porrìa contare.
A battaglia finita, ci fu una solenne processione di ringraziamento, con la partecipazione del Legato Pontificio, e una massa enorme di combattenti si unì, si radunò. Sfilarono con ancora i segni della battaglia sfilarono con elmi, corazze e scudi ammaccati e tagliati. Poi gli aquilani, tornarono in città, e stanchi e prostrati i combattenti aquilani, furono accolti dai fiori sparsi a terra al loro passaggio, da canti e danze di uomini, donne, e bambini.
Per la gente Commun Aquila ha fatta
De quelli d’Amiterno, e di Forcone,
Come per vera scrittura se tratta;
Li signuri d’enturnu in cuntra fone,
Che la voleano del tutto disfatta,
L’uni con li altri guerra comenzone;
Per la virtù, che da Dio li descenze,
Perdir Signuri, e li Aquilani venze.
Molti cimeli, nella battaglia furono riportati in città. Appesi sulle mura e sulle porte, che si trasformarono, presero le sembianze di grandi pitture, decorazioni per la gioia degli aquilani. Grandi falò si alzarono nella notte, illuminarono le vie, le piazze dei Quarti. La festa iniziò. I fuochi illuminarono le tante torri della città, e le campane, tutte, non cessarono di suonare per tutta la notte, dopo tredici mesi di assedio non si erano udite insieme. Solo alcune campane suonavano in quei mesi trascorsi per gli allarmi. Si videro, poi, lunghe file di milizie aquilane, che riportavano in città, dalle porte, mille cuoia di cavalli, che attestavano gli animali uccisi nella battaglia, contro Fortebraccio da Montone. L’Aquila aveva vinto. Non perirà mai.
L’Aquila bella mai non po’ perire
Che Dio la fece ben franca et sicura
Bellissima et ben piena d’ardire:
La quale vola sopre onne altura
Anco più innanti io vi vo seguire
Che San Iovandi prese sua figura
Tanto li piacque la sua fiera vista
Soa insegna prese lu gran vangelista.
L’Aquila e il suo contado vincitori. La Regina Giovanna, con un suo diploma, del 22 giungo 1424, rinnovò la gratitudine verso la città dell’Aquila, per i suoi tanti sacrifici, privazioni, distruzioni, incendi, uccisioni, perdita dei raccolti, taglio degli alberi, devastazione dei campi, interruzione del commercio, e infine le spese per gli armamenti. Dispose, per i quattro anni successivi, che la città dell’Aquila fosse sgravata dai pesi fiscali, per la fedeltà dimostrata. E’ concesse, inoltre, con lo stesso Bando, alla città, la concessione della zecca per la coniazione dei Bolognini d’argento e un’esenzione dei tributi per la durata di cinque anni.
Pria fo de Dio piacere, e voluntade
L’Aquila fo murata magna e bellò,
E fatta questa nobile Cittade
Per li Christiani di Città novella;
fo sottoposta al Re con libertade,
Che per nesciun non se paghe gabella:
L’altre Cittai le fecer Pagani,
Christo l’aiute, che la fer Cristiani.
E Fortebraccio da Montone? Che cosa gli era accaduto? Catturato alla fine della battaglia, e ferito alla gola gravemente, nel terzo giorno morì. Lo uccise Francesco Sforza, un suo acerrimo avversario, come narrano le cronache, infilandogli nel suo letto agonizzante, di morte, un punteruolo nel collo.
El Medico li fe’ presto venire,
Felli tentare ciascuna ferita;
Iusta soa possa lo volea guarire.
E retornarelu da morte a vita;
Conte Francisco scì lo hebbe a sentire,
Quella persona magna, e tato ardita
Colle soe mani scì lo medicone
Pocoo stette, el Signor Braccio Spirone.
Et concludendo in fine fo sparato
Tratto quel dentro non ne volse mino;
Como che meritò li fo incalciato,
E fo mandato da Papa Martino;
El Papa, ch’ellu havea scommunicato,
Nel Campo San Lorenzo in quel terrino
In una grotta elli si fo gettato,
Como Christiano falto, e condannato.