Ponza, i racconti e la solitudine di un mondo silenzioso ritrovato.

Testo e fotografia Vincenzo Battista.

La casa, sembra un’imbarcazione, lunga, a “Le Forna” quella è la contrada, poggiata su un declivio che scivola sulle falesie a precipizio sulle calle rocciose del mare di Ponza. All’orizzonte l’isola di Palmarola. Sì Ponza, la casa, e ai lati, a “poppa e a prua”, abitano i fratelli Vitiello, Luigi del 1942 e Silverio del 1950, che hanno navigato tutti gli oceani del pianeta: costruiscono oggetti, barche in miniatura e lampade per loro. Parlano, raccontano di epiche imprese e navigazioni sui mari, oltre i confini della terra… Ma noi, siamo andati a cercare Ferola Antonino, alias Bixio, un Aureliano Buendia del romanzo “Cent’anni di solitudine” di Marquez, nell’agglomerato urbano sempre di “Le Forna , in una casa del 1902. Bixio, il grande salone novecentesco, le sue fotografie d’epoca e i racconti, la solitudine delle sue epiche imprese per difendere e farsi carico di una piccola comunità dentro i soprusi, le ingiustizie e le prevaricazioni. Classe 1950, Antonino, nella sua autobiografia dal titolo “L’Isola”( pag.ne 167), c’è tutta quell’acqua scura, il mare che guarda e che nasconde le sue antiche paure, le radici, in quell’isola, Ponza, di povertà, miseria e dignità ma solo quella che andava difesa, poiché, intorno, non c’era nulla. C’è la lotta tra il bene e il male, scrive nei capitoli del libro, e la miniera della preziosa bentonite nell’insenatura Cava dell’Acqua: dal 1930 la società appaltatrice iniziò con i sondaggi e poi la demolizione delle case sulla linea di cresta, 72 famiglie, e la lenta erosione della montagna scavata che non avrebbe mai più permesso alla vegetazione di riprendersi, ancora oggi, le sue specie arboree autoctone. Furono abbattute le case, mentre avanzava lo scavo meccanico della parete di bentonite nella devastazione di un’area di altissima qualità ambientale, poi fu la volta dei vigneti con i terrazzamenti a mura a secco, gli orti, le strade di accesso al piccolo bordo sopraelevato sulla scogliera: tutto scomparso. Le donne si gettarono a terra, piangendo e disperandosi formando una lunga catena umana – così il racconto – per la deportazione di interi nuclei familiari senza essere avvisati, sgombrati e indifesi. E poi le maestranze locali chiamate ad estrarre la bentonite: minatori malati, maltrattati, sfruttati e la loro incapacità di stare al passo con i ritmi della lavorazione sulle pareti della miniera. Una storia che Antonino, “Aureliano Buendia – nella sua difesa della libertà di pensiero e del suo sacrosanto tempo -”, nei decenni successivi ha vissuto e se n’è fatto carico, per poi trascinarla nella scrittura, insieme a tante altre narrazioni presenti, appunto, nel volume “L’isola”, documento puro, incontaminato, delle ragioni delle minoranze abbandonate e senza diritti. Ci affacciamo al balcone della sua casa, giù il budello stradale intasato fino all’inverosimile, davanti la chiesa parrocchiale e al suo interno un plastico che ricostruisce in maniera scrupolosa e dettagliata Cava dell’Acqua e l’insediamento umano prima del suo disfacimento: sì la chiesa, poiché molte famiglie evacuate dalle loro case lì dormirono e vissero per un periodo. Antonino, poi, si gira verso la miniera, mostra una fotografia d’epoca in bianco e nero della baia, eredità e legame di un mondo silenzioso.